Figlio di nessuno (Nicije dete)
Vuk Rsumovic
- Serbia 2014 - 1h 35’

VENEZIA 71° - Premio Fipresci
Vincitore 29a SETTIMANA DELLA CRITICA



 

   Gradualmente ma nettamente (...) il film si distacca dai confronti con opere (anche se la sensibilità truffautiana resta) riferite a realtà e/o leggende del passato lontano, e dal loro sguardo pedagogico, filosofico, antropologico, perché la vicenda s'intreccia, con mirabile fluidità, alla contemporaneità storica. La disintegrazione della Jugoslavia, le guerre, la divisione e la ferocia etnica. (...) Alcuni dettagli simbolici parlano al posto delle spiegazioni: le scarpe, quelle da ginnastica sostituite con gli anfibi, la comparsa delle armi e della reciprocità di odio tra persone che appena poco prima convivevano. Il senso, che passa appunto attraverso una rappresentazione quasi muta e tutta condivisa con il punto di vista selvaggio e innocente del protagonista, è quello di un percorso che al piccolo Haris ha tolto più che dato. Si è parlato di 'purezza' per questo film e la definizione è calzante. La condivisione di punto di vista si esprime delicatamente nei tagli di inquadratura all'altezza, variabile nel corso della storia, dello sguardo di Haris, facendo propri tanto la sua diffidenza che i suoi incantamenti. L'interprete, che si chiama Denis Muric, fornisce una prova di grande intensità.
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Paolo d'Agostini - La Repubblica 

   ...il regista e sceneggiatore di Belgrado, classe 1975, sa infondere in una storia individuale, e così idiosincratica, i cascami sociali del conflitto nell'ex Jugoslavia. E lo fa senza sforzi, bensì umanisticamente, contrapponendo l'umanità delle bestie alla bestialità degli uomini. Non scomodiamo II ragazzo selvaggio di Truffaut o un Libro della giungla balcanizzato, ma non si fa dimenticare: guerra e pace, romanzo di formazione e favola morale, dramma privato e ricadute geopolitiche, stile già maturo e metafore non peregrine, Figlio di nessuno non cerca (solo) il sensazionalismo, ma la sensibilità. La nostra: lo adottiamo?

Federico Pontiggia - Il Fatto Quotidiano

   Bosnia, 1988. Un gruppo di cacciatori trova nel bosco un bambino cresciuto in mezzo ai lupi, dei quali ha adottato le sembianze e lo stile di vita: non parla, non cammina, ringhia e morde chiunque lo avvicini. Il bambino, chiamato Haris, viene spedito in un orfanotrofio di Belgrado, dove inizialmente rifiuta ogni contatto e ogni forma di educazione, poi, grazie alla presenza di un assistente sociale e all'amicizia con Zika, un ragazzo più grande, esce gradualmente dallo stato animale per ricongiungersi con la propria natura umana. Ma il percorso di umanizzazione del bambino non è necessariamente evolutivo, né garantisce ad Haris una vita migliore di quella vissuta in mezzo ai lupi.
Il paragone fra
No One's Child, opera prima vincitrice del Premio del pubblico alla Settimana della Critica e del premio FIPRESCI alla Mostra del cinema di Venezia, e Il ragazzo selvaggio di Francois Truffaut è immediato e inevitabile. Ma il regista serbo Vuk Ršumovic, basandosi su una storia vera, cala il piccolo protagonista nella contemporaneità, introducendo elementi sociopolitici che fanno un'enorme differenza nello sviluppo della storia, ad esempio l'insorgere dei nazionalismi che sarebbero sfociati nella guerra del 1992 (folgorante il momento in cui Haris scopre di essere bosniaco perché un gruppo di ragazzi serbi lo apostrofa come "sporco mussulmano").
In realtà il paragone necessario è con un altro film di Truffaut, I quattrocento colpi, non solo per lo sguardo desolato del piccolo protagonista, che anche fisicamente assomiglia al giovanissimo Antoine Doinel, ma soprattutto perché la storia è raccontata all'altezza di quello sguardo, inizialmente orizzontale, poiché Haris non ha ancora conquistato la posizione eretta, e via via sempre più verticale, ma di una verticalità distorta e fuorviante, perché distorto e fuorviante è il mondo che circonda il ragazzino. Un mondo fatto di gambe senza volto (l'inquadratura delle due ragazzine dal fondo di un sottoscala è un riferimento al Truffaut di Finalmente domenica!, che a sua volta citava L'uomo che amava le donne) e di voci senza corpo, come nella scena del colloquio con la psicologa de I quattrocento colpi.
Ršumovic riesce tuttavia a ritagliarsi un'originalità di stile grazie ad una fotografia nitida ed essenziale priva di qualsiasi sentimentalismo o di qualsiasi afflato romantico "alla Truffaut", e incastona il percorso di Haris in ambienti che paiono quinte teatrali: le stanze dell'orfanotrofio, i vicoli di una Belgrado sordida e allucinata, il cortile degradato e pieno di insidie. La cinepresa di Ršumovic racconta l'assurdità dell'odissea di Haris come coincidente con l'assurdità del conflitto nell'ex Jugoslavia, la cui devastazione identitaria rispecchia e amplifica quella del "ragazzo selvaggio". E tuttavia trova la bellezza anche nello squallore dell'esistenza del bambino perché ne è affamata quanto lui. Malgrado
No One's Child sia il film di Haris (e dello straordinario Denis Muric che lo interpreta), ogni personaggio di contorno ha il suo momento, e la scelta degli attori è straordinaria: profondamente attraenti senza esserlo in modo "cinematografico", perfettamente "in parte" nella recitazione essenziale richiesta dalla storia.
No One's Child è un debutto cinematografico di grande maturità e purezza etica ed estetica, un racconto in tre atti quasi muto che utilizza la luce e l'ombra come potenti strumenti narrativi, una struttura perfettamente circolare che inizia e finisce con uno sparo e si articola intorno a un paio di scarpe: quelle che Haris rifiuta, accetta, scambia e di nuovo rifiuta, come maschere sempre inadeguate a definire il suo ruolo nel mondo.

Paola Casella - mymovies.it 




promo

Nella primavera del 1988, fra le montagne della Bosnia, viene ritrovato un bambino cresciuto fra i lupi. Gli viene dato il nome di Haris e viene inviato in Serbia, all’orfanotrofio di Belgrado, dove inizialmente rifiuta ogni contatto e ogni forma di educazione; poi, grazie alla presenza di un assistente sociale e all'amicizia con Zika, un ragazzo più grande, esce gradualmente dallo stato animale per ricongiungersi con la propria natura umana. Ma il percorso di umanizzazione del bambino non è necessariamente evolutivo, né garantisce ad Haris una vita migliore di quella vissuta in mezzo ai lupi. Basato su una storia vera, il film del 40enne Vuk Rsumokiv è di commovente freddezza ma con lo sguardo critico e una pietas crudele per la sorte jugoslava. Negli occhi di Denis Muric si legge il bene e male della nostra civiltà, dall'ignoranza al dolore. Un debutto cinematografico di grande maturità e purezza etica ed estetica; emozionante sempre e sconvolgente nel finale.

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 LUX - maggio 2015

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