Gang e gangster
hanno ovviamente la stessa radice, ma se il gangster-film ha costruito
una mitologia cinematografica di aspri contrasti tra legalità e crimine
sempre con un occhio di riguardo verso il sofferto ristabilirsi dell’ordine
pubblico, l’affresco che
Scorsese
dipinge sullo schermo con Gangs
of New York
è di disperato, virulento pessimismo, teso quasi a depauperare la
storia americana delle sue stesse origini democratiche, a trovare
nel forzato amalgama di etnie e culture l’innesco atavico di una violenza
insanabile, a dipingere New York come città epocale di tensioni e
ingiustizie, lotte e contraddizioni, soprusi e… progresso.
Quasi tre ore di cinema-cinema incorniciate tra due efferate battaglie di
sconvolgente impatto spettacolare,
di straordinaria orchestrazione
cine-scenografica: la prima è datata 1846 e vede lo scontro tra le bande rivali
dei “Nativi” e dei “Conigli Morti” (gli immigrati cattolici irlandesi). A capo
degli uni il feroce Bill (Daniel Day Lewis), soprannominato “il macellaio” non
solo per il suo mestiere, ma per la brutalità con cui colpisce i nemici. E a
farne le spese è subito l’agguerrito padre Vallon (Liam Neeson), trucidato di
fronte agli occhi del figlio. I suoi Conigli Morti sono sconfitti e banditi
dalla città.
Per arrivare al secondo cruento conflitto nello stesso fatidico crocicchio (i
Five Points, l’attuale Chinatown) devono passare diciassette anni (il 1863 è
l’epoca della Guerra Civile). Il piccolo Amsterdam Vallon è diventato un aitante
giovanotto (Leonardo Di Caprio) che, pur se assetato di vendetta, trova
protezione proprio sotto l’ala di Bill che ha ormai in pugno la città. Giochi di
potere, politico e malavitoso, risse di strada, borseggi e schermaglie amorose
(amabile, ma poco incisiva la figura di Jenny-Cameron Diaz) fanno crescere il
racconto in una ridda di moniti civili e drammi veementi.
Pur se i personaggi restano incompiuti e le loro caratterizzazioni psicologiche
troppo monolitiche e lontane, pur se il ritmo talvolta non è adeguato e la
congestione iperviolenta delle situazioni scade qua e là in un ingolfato
manierismo, certo è
che la forza figurativa di con cui Scorsese dirige il tutto
è uno scioccante compromesso tra la magnificenza populista del blockbuster e il
virtuosismo registico d’autore: oltre alle epiche battaglie, vanno citate almeno altre due scene memorabili. La sequenza che accompagna le nuove truppe sulle
navi mentre dalle stesse, in concomitanza, discende un macabro corteo di bare;
il triplice amen che suggella tre contrapposte invocazioni prima dei tumulti
finali: quello del truce Bill che si erge a difensore della sua terra, quello
dell’impavido Amsterdam che vuole condurre i suoi ad una doverosa integrazione
sociale, quello del ricco signore che chiede misericordia a nome di una
borghesia spaurita nel dover rendere conto della propria protervia.
Tra Dickens e Shakespeare, tra Griffith e De Mille,
Gangs of New
York
scorre impetuoso verso
la nuova battaglia, quella
conclusiva. Di nuovo Nativi e Conigli Morti gli uni di fronte agli
altri, di nuovo la brutalità medioevale del corpo a corpo da consumarsi
tra mazze e coltelli, bastoni e asce. Ma stavolta allo scontro delle
gang si sovrappone
l’impeto del potere costituito (ci sono in ballo la manipolazione
dei voti elettorali e la chiamata obbligatoria alle armi che scatena
l’insurrezione di tutta quella New York che non ha i trecento dollari
necessari per l’esonero dalla leva) e le navi dell’Unione, ormeggiate
nella rada, aprono il fuoco sulla città e sugli insorti. La lotta
di Bill, Amsterdam e dei lori seguaci si disperde nel fumo delle
esplosioni
e solo il duello tra i due protagonisti ha il tempo di compiersi.
Per il resto anche le lotte tra le bande, come le bistrattate istanze
della popolazione, sono immolate di fronte al sordo cinismo della
ragion di stato.
Forte l’assunto conclusivo? In Gangs c’è di peggio. C’è una
bieca caratterizzazione dei primi drappelli di pompieri (gli eroi
dell’11
settembre) che lasciano bruciare gli edifici per squallida
competitività, c’è un’ingannevole commistione di verosimiglianza e
falsità storica (la coscrizione e la rivolta di New York sono episodi
reali, ma non lo sono affatto le cannonate dalle navi e l’incendio
del museo-circo Barnum, pur così efficaci a livello filmico), c’è
un’esibizione esasperata di scenografie ridondanti e di imponenti
scene di massa, di corpi maciullati e di inquadrature sfolgoranti,
di sangue versato a fiumi e di raffinati movimenti di macchina. Davvero
da colpire lo stomaco e togliere il fiato!
E c’è, in magistrale contrapposizione alle lapidi dei non-eroi che abbiamo visto
soccombere, il crearsi sullo sfondo di una New York in continuo sviluppo, epoca
dopo epoca, palazzo dopo palazzo, grattacielo dopo grattacielo. In questa
preziosa digitalizzazione a cui si affida il finale dell’opera (corroborato
dall’analogia musicale di The Hands That Built America degli U2), svetta,
nel panorama dell’Est-side, l’immagine delle Torri gemelle: uno schiaffo
ulteriore al dolore americano che cerca inopinatamente di rimuoverle da tutte le
rappresentazioni cinematografiche? Una simbolica presenza per un’ellissi
temporale che vuole collegare la violenza di ieri a quella di oggi?
Gangs of
New York non è il capolavoro riuscito che speravamo, ma, come lo sfregio con
cui Bill umilia Amsterdam, come la cicatrice sul ventre di Jenny, ancora una
volta il cinema di Scorsese lascia un segno, indelebile, nel nostro immaginario
cinematografico. |