Osservare
il mondo ed esaminare le psicopatologie degli altri da un punto di
vista del tutto esterno e distaccato sembra essere diventata la cifra
stilistica del nuovo cinema austriaco da Haneke in poi.
A questa idea di cinema si rifà, al suo debutto dietro la macchina da
presa, anche Veronika Franz, sceneggiatrice e moglie di Ulrich Seidl,
che, assieme a Severin Fiala, firma la regia di
Ich seh Ich seh,
presentato nella sezione Orizzonti.
Nella scena iniziale la cinepresa riprende i giochi di due bambini,
gemelli identici, che si inseguono in un campo di mais, avvicinandosi
alla superficie di un lago: apparentemente un incipit di
ambientazione, che in realtà fornisce allo spettatore un importante
indizio cognitivo, che gli permetterà in seguito di interpretare
quelle immagini in modo differente.
All'interno del campo di mais si trova, sorprendentemente, una villa
elegante in puro stile razionalista, dove i due ragazzi vivono con la
madre, di cui attendono il ritorno, dopo un'operazione di chirurgia
estetica, che l'ha tenuta lontana per un certo periodo.
Nella scena dell'incontro, dopo il suo rientro in casa, la madre verrà
ripresa inquadrata di spalle, in piedi davanti a una finestra e quando
si volterà per accogliere i figli, rivelerà un volto completamente
coperto da bende, che le lasciano liberi soltanto gli occhi e la
bocca, una creatura senza volto, resa ancor più inquietante dalla
fotografia fredda e geometrica di Martin Gschlacht.
Le regole ferree di disciplina imposte dalla madre, per garantirsi una
guarigione tranquilla, ingenereranno nei gemelli il sospetto che
dietro quelle bende ci sia celata un'altra persona. Il graduale
distacco e la distanza tra madre e figli vengono accentuati dalla
divisione geometrica della casa, dove i due bambini trovano degli
spazi separati, in cui dedicarsi ai loro giochi, condotti sul confine
tra innocenza e crudeltà, che sfoceranno ben presto in un crescendo di
orrore.
A partire dalle gemelle di Siodmark (Lo specchio scuro) fino agli
Inseparabili di Cronenberg, alle
Sorelle di de Palma, ai gemelli di Robert Mulligan (il cui
The Other -1972- sembra aver ispirato questo
film per le forti affinità di sceneggiatura) queste figure nel cinema
sembrano avere sempre una connotazione inquietante, così come i volti
bendati o i campi di grano. Ma, pur ricorrendo ad elementi tipici del
genere, Franz e Fiala hanno saputo affrontare l'argomento con un
taglio del tutto originale.
La loro messinscena tende a sottolineare, in ogni sequenza del film,
un elemento, la cui assenza genera tensione e pone degli
interrogativi: un volto materno e con esso la rassicurante identità
che portava con sé, fotografie tolte dalle pareti, un fratello sempre
presente, che però ogni tanto sembra svanire nel nulla. La paura
prodotta dall'assenza dà vita al terrore, all'odio fino ad arrivare ad
un'aggressività distruttiva, che colloca il film al confine tra realtà
e distorsione onirica.
Ma più che al risvolto psicologico, che guida lo spettatore alla
comprensione del trauma, che sta alla base dello sviluppo della trama,
Franz e Fiala sembrano interessati al processo di trasformazione di un
sentimento filiale in un desiderio di annientamento, al progressivo
passaggio dall'innocenza al desiderio primario e ritualistico, per
cui, se la prima parte del film può rientrare nella tipologia del
genere, negli ultimi venti minuti di tortura e di furia incendiaria,
in cui la macchina da presa indugia sulle ferite della carne, il film
si solleva in un'esplosione irrazionale, che ha la forza spiazzante
delle provocazioni surrealiste.
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