Io non sono qui (I'm Not There)
Todd Haynes
- USA 2007 - 2h 15'

Venezia 64°
Gran Premio Speciale della Giuria
(ex aequo con La Graine et le mulet)
Coppa Volpi per la miglior interpretazione femminile (Cate Blanchett)

   Paradosso Dylan. L’opera più eccentrica ed emozionante della 64a Mostra del Cinema approda sugli schermi italiani con un titolo, Io non sono qui, già di per sé spiazzante e contraddittorio (sa di alienazione mentale). Il lavoro di film precedente in archivio Todd Haynes film precedente in archivio, in originale invece I’m Not There (Io non sono là), prende spunto da una canzone-fantasma registrata nel ’67 ed inserita nei mitici Basement Tapes pubblicati una prima volta nel 1975, ma solo nel 1992 in una versione definitiva (non ufficiale, così come il testo!) dove compare il brano in questione. Emblematica quindi la scelta per delineare un film-mosaico in cui i tasselli sono costituiti dalle enigmatiche personalità in cui può essere descritto (secondo il regista*) il mitico Bob Dylan: poeta, profeta, fuorilegge, imbroglione, star di elettricità, martire del rock and roll, “cristiano rinato”.
Per ognuno un nome e un attore diversi che identificano i momenti significativi, i periodi musicali, le connotazioni ideologiche della sua vita, artistica e privata. E per ogni immagine del personaggio-Dylan uno stile particolare, un taglio narrativo ora lineare, ora surreale, ora incalzante, ora trattenuto. In un rigoroso bianco e nero
Arthur (Rimbaud) risponde come ad un intervistatore fuori campo; al poeta francese, fonte di ispirazione per la fase blues di Dylan, il compito di confrontarsi con le accuse di attivismo sovversivo legato alla sinistra radicale (l’interprete è Ben Whishaw). Con la chitarra in spalla, montando e saltando dai treni in corsa il ragazzino di colore Woody (Marcus Carl Franklin) incarna la primavera musicale del nostro, quando andava rivelando la sua anima folk, quando attraversava l’America come un vagabondo per arrivare al capezzale del suo idolo Woody Gurthie. A Christian Bale è affidato un doppio ruolo; in primis, con il nome di Jack Rollins, quello essenziale, del Dylan anni ’60: una chicca le copertine dei vinile di allora riproposte e riadattate per questa meticolosa rilettura che non manca di coinvolgere la compagna di vita e musica Alice Fabian (alias Joan Baez, impersonata da Julienne Moore). Ritroveremo poi Bale, in una breve parentesi, come pastore John, a stigmatizzare la svolta religiosa degli anni ’70…
È già chiaro come il magma di riferimenti culturali renda il racconto un prodotto cinematografico per iniziati, per dylaniani esperti, ma Hyanes calca ulteriormente la mano con uno stile visionario che somma alla frammentazione narrativa un intarsio di montaggio psichedelico (le varie storie si interrompono di continuo, si accavallano, si intersecano) che estremizza ogni personalità, ogni situazione.
L’apertura, prima di affidarsi alle folgoranti note di
Stuck Inside of Mobile, introduce alcune sequenze di una motocicletta, quindi la fugace apparizione di un Bob Dylan defunto (“giace lì; che la sua anima riposi in pace con la sua scortesia”): il riferimento è al drammatico incidente del 1966 nel quale “morì il primo Dylan” e a cui fece seguito una fase di isolamento umano ed artistico. Ecco allora che Haynes va a prestito di un personaggio come Billy The Kid (per il film di Peckinpah del ‘73 Dylan scrisse una splendida colonna sonora) e lo affida alla recitazione sorniona di Richard Gere per concedergli, simbolicamente, di sopravvivere alla fine, propria e di un’epoca, e per descrivere la voglia di isolamento, l’ermetismo poetico di un Missouri iperreale (Enigma), l’incombere delle contraddizioni e del progresso, l’immancabile riavvicendarsi del viaggio musicale.
È la parte meno convincete e più stagnante di
I’m Not There che invece si inebria nei quadri disegnati attorno alle due figure di Robbie e Jude. Il primo (Heath Ledger) impersona un popolare divo cinematografico e sulla sua storia privata (il successo, l’amore e il matrimonio, la crisi coniugale e la separazione) si intrecciano gli avvenimenti politici degli anni 70 (col Vietnam sulla sfondo). A prendere il ruolo di Jude Quinn è invece Cate Blanchett (straordinaria, meritatissima la coppa Volpi), che gioca sull’identità androgina del Dylan nella seconda metà degli anni 60, quando “il menestrello delle coscienze” ebbe modo di incontrare Allen Ginsberg e i Beatles, si trovò in attrito con la stampa (efficace la concretizzazione del famoso Mr. Jones), “sparò” in faccia al pubblico dei suoi fans la svolta elettrica del ’65 (Festival di Newport).
Il tutto cadenzato ovviamente da musiche e canzoni che hanno precorso i tempi e segnato un’epoca, che hanno fatto da mentore a più di una generazione. Oltre venti i brani nella versione originale del cantautore di Duluth (vi nacque nel 1941 con il nome di Robert Allen Zimmerman), circa quindici quelli presi come cover per seguire cronologicamente la sua discografia (ben 50 gli album ufficiali), per accompagnare nell’arco della fiction la complessità dei suoi alter-ego. In chiusura è l’immagine di Dylan stesso che riempie lo schermo, seguita dal suono memorabile di
Like a Rolling Stone. Come sentenzia Bob-Arthur “una canzone è qualcosa che corre da sola”.

ezio leoni - La Difesa del Popolo  16 settembre 2007

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6 personaggi in cerca di Dylan. Un film-mosaico in cui i tasselli sono costituiti dalle enigmatiche personalità in cui può essere descritto il mitico Bob: poeta, profeta, fuorilegge, imbroglione, star di elettricità, martire del rock and roll, “cristiano rinato”. Per ognuno un nome e un attore diversi che identificano i momenti significativi, i periodi musicali, le connotazioni ideologiche della sua vita, artistica e privata... E per ogni immagine del personaggio-Dylan uno stile particolare. L’opera più eccentrica ed emozionante della 64a Mostra del Cinema.

TORRESINO - settembre 2007

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