Les amants réguliers
Philippe Garrel - Francia 2005 - 2h 58'


62° festival
di VENEZIA

LEONE D'ARGENTO per la miglior regia
OSELLA per la migliore fotografia a WILLIAM LUBTCHNSKY

da La Stampa (Lietta Tornabuoni)

     È molto bello il nuovo film in concorso, in bianconero, di Philippe Garrel, con Louis Garrel (figlio del regista, interprete per Bernardo Bertolucci di The Dreamers) e Clotilde Hesme: Les amants réguliers (Gli amanti regolari). Con grande intensità, precisione, eleganza evocativa, Garrel ricostruisce fatti e umori, idee e amori del 1969 a Parigi, recuperando insieme l'adolescenza e le passioni di quel passato senza il minimo errore, senza alcuna goffaggine né cattivo gusto: perfetto. Scontri con la polizia, strade disselciate, razzi, bottiglie molotov, fumo, incendi, bandiere bruciate, corse in fuga, cariche, sbarramenti costruiti con le auto rovesciate, evasioni sui tetti, ritorni a casa all'alba, speranze fucilate. Discorsi d'epoca: «Vorrei essere un imbianchino, cioè un vero pittore; e restare sconosciuto, anonimo»; «Se pubblicassi le mie poesie, mi sentirei un traditore»; «L'organizzazione è per le pecore, vogliamo l'anarchia»; «I sindacati sono lenti, temono la rivoluzione più dei borghesi». Quando tutto è consumato o quasi, tra un poeta ragazzo e una ragazza scultrice nasce un bellissimo amore fatto anche di amicizia, solidarietà, allegria, scoperte. E di droga leggera, naturalmente: il film quasi non è cominciato che gli interpreti sono già lì con le pipe di hascisc. Poi lei va a cercare fortuna a New York, lui disperato muore: anche l'amore è finito insieme con la vita.

da L'Unità (Alberto Crespi)

     Parigi, 1968: torna sugli schermi «le joli mai» ma non è più tanto «joli». Anzi. Les amants réguliers di Philippe Garrel (in concorso) sembra un canto di morte alla memoria dei giovani che sognarono in quei giorni la rivoluzione e poi pagarono sulla propria pelle la colpa di «aver chiesto l'impossibile». Il film dura tre ore, è in bianco e nero, è girato nello stile al tempo stesso rigoroso e anarchico di Garrel (rigoroso nella perfezione delle inquadrature, illuminate da quel genio di William Lubtchansky, abituale collaboratore di Godard, anarchico nella progressione della storia). Il protagonista è Louis Garrel, figlio del regista, e la sua presenza «fa» tanto Bertolucci, visto che era uno dei tre ragazzi di The Dreamers (sempre Parigi, sempre 1968). L’omaggio, del resto, è esplicito: nel film Clotilde Hesme, la protagonista femminile, chiede ai suoi amici se hanno visto Prima della rivoluzione e poi, guardando in macchina (e quindi rivolgendosi a noi spettatori), mormora estatica "Bernardo Bertolucci", con tutte le «erre» mosce di prammatica... Un ritratto d’ambiente ironico,dolente e un po’ noioso. Il film è diviso in tre grandi capitoli e solo il primo riguarda in modo diretto il ‘68, la militanza, le barricate. È li che nasce l’amore fra i protagonisti, lui poeta squattrinato. lei aspirante scultrice. Nella seconda e nella terza ora di proiezione i due bivaccano, assieme ad altri ragazzi, nella magione di un amico che ha fatto la rivoluzione - parole sue - ereditando un bel po’ di franchi dai genitori. Tra interminabili fumate ed estenuanti discussioni, la storia d’amore procede finché la ragazza non decide di seguire a New York un affermato pittore che le ha promesso di lanciarla nel mondo dell’arte. Il giovane sprofonda nella solitudine e medita il suicidio: la malinconia e il senso incombente della fine coprono la memoria della ribellione.
Non ci sembra legittimo leggere
Les amants réguliers come una condanna politica del ‘68, né come un’apoteosi (anche se una citazione di Pasolini sembra indicare come la pensa Garrel sui rivoluzionari figli della buona borghesia). È prima di tutto una storia d’amore... Il titolo, con la sua allusione alla «regolarità», sembra rimproverare ai protagonisti la chiusura nel proprio amore (esattamente quello che rischiavano i tre ragazzi di The dreamers, prima che la "rue", la strada, irrompesse nel loro tentativo di suicidio). Ma forse c’è anche, nel film dell’ex allievo di Truffaut e Godard, un sottile, disperato messaggio sulla difficoltà di essere all’altezza dei maestri. Come quando il ragazzo, renitente alla leva, viene processato dalle autorità militari e si dichiara «poeta»: uno dei giudici mormora "Rimbaud, Baudelaire... tutti in galera, li avrei messi". Ma il problema è che il nostro giovane eroe non è Rimbaud nè Baudelaire, e scoprirlo a vent’anni può essere devastante.

da Film Tv (Aldo Fittante)

     Tre ore di ‘68 attraverso il ‘69, e il seguito-integrazione ideale di The Dreamers di Bernardo Bertolucci (da cui ha ereditato molta
parte delle scenografie, dei costumi e delle comparse). Dove finiscono i sogni dei Sognatori («Dans la rue! Dans la rue!...») iniziano le illusioni degli
Amanti Regolari... Le barricate, i fuochi, le auto rovesciate, il sangue, la polvere, i poliziotti, le fughe sui tetti (non c’è solo la Nouvelle Vague nel cinema di Garrel, ma tutto il resto del cinema: Vigo, Clair, il muto...), lasciano il campo dopo circa un’ora agli interni, all’appartamento che in The Dreamers è(ra) tappezzato di cinemanifesti, di altro sangue (quello verginale), di cinefila spudoratezza, di scoperte personali e introspettive e che in Les amants réguliers si trasforma, invece, in approccio più “adulto” più disincantato, come se già si conoscesse l’epilogo (il ‘69, la “normalità”). Qualche spettatore accuserà la lentezza, i “dialoghi della vita”, le battute apparentemente senza senso («I1 giorno è italiano, la notte è tedesca»), e la falsa incomunicabilità tra i due protagonisti del film di Garrel. Ma è proprio questa la sua sperimentalità, perché Les amants réguliers è il cinema che non c’è più e che non c’è mai stato, gli occhi dentro agli occhi e la mano nella mano di un sentire cinematografico che solo gli autori totalmente svincolati dal mercato possono avere, possedere, dominare. Ammazza-pubblico? Certo, per chi ormai è completamente ripiegato sui ritmi vertiginosi dei blockbuster, questi sì autentici assassini del pensiero e della complicità. La finzione, nei film di Garrel, è esterrefatta, è una romantica superstizione. È il dolore che si fa poesia ed è la poesia che contrasta l’omologazione. Anche nella scelta dei due magnifici volti, Louis Garrel (figlio di Philippe e nipote di Maurice che appare in una lunga scena dadaista) e Clotilde Hesme (fondamentali teatrali e, finora, piccole parti) il regista indica la sua strada e il suo percorso: tutto deve essere - non sembrare - bello, perché oltre alla ricchezza, bisognerebbe ridistribuire la bellezza. Tra le sconfitte del ‘68 c’è (stata) proprio questa incapacità di farsi mandare in crisi da modelli che non appartengono, nè possono appartenere, al mondo della poesia, dell’improduttività, della ragione che si fa sentimento, dell’amore che non ha bisogno che dell’amore. La partenza di Lila per gli Stati Uniti è La Sconfitta di una storia e di una generazione («Ho dovuto giurare di non essere comunista per avere il visto» confessa lei. E lui: «Hai fatto questo?!»). Ma anche la morte di Francois (tra l’altro, soprattutto quando sorride, Louis Garrel assomiglia in modo impressionante a Jean-Pierre Leaud) lo è, anche se più comprensibile. Col passare dei minuti, Garrel riduce i dialoghi e sposta la sua cinepresa solo sulle emozioni. Non importa quante volte si dice «ti amo» ma quante volte si avrebbe voglia di dirlo. Il mondo di Garrel - che anche questa volta non si dimentica di Nico, sua compagna di vita e di “lavoro” per dieci anni tra Parigi e Ibiza (e la scena del ballo, oltre a essere un esplicito e stratificato omaggio a Bernardo Bertolucci, è tra le più avvolgenti dell’intera opera) - fatica a respirare nel mondo dei regolari, non sente più le chitarre, teme i cuori fantasma, si rifugia nei baci di soccorso, ha più di una cicatrice interiore e tuttavia ha ancora voglia di illudersi nella nascita di un altro amore, di altri amori, di altre vite, di altre possibilità di fuga. Per tornare, finalmente, a essere irregolari.

da La Repubblica (Natalia Aspesi)

     Il regista e il film più esotici della 62esima Mostra del Cinema non vengono dalla Corea o dalla Cina, ma dalla Francia: lui è Philippe Garrel. che con i suoi lunghi ricciuti capelli grigi e lo sguardo languido è l’immagine impolverata di un tempo che sembra non essere mai esistito. il suo film è Les amants reguliers, e in tanti si era pronti a piantarlo li a metà, non tanto per i suoi 178 minuti quanto perché a chi gliene importa più del sepolto, dimenticato, antidiluviano ’68 vìsto da uno che l’ha vissuto, soprattutto dopo The Dreamers di Bernardo Bertolucci? In più Garrel è un regista fuori moda, perché era ed è rimasto povero in un epoca in cui la povertà, tanto temuta, è segno di fallimento. Il suo film è costato meno dl uno spot, un milione e mezzo dl euro, e per risparmiare all’osso ha anche preso come attori il padre Maunce e il figlio Louis (bello, protagonista di Dreamers) a paga da elemosina. Il suo linguaggio nelle interviste pare antico come il sanscrìto: parla di classe operaia, di borghesia, di rivoluzione come se, arrivato ventenne allo storico Maggio parigino, li si fosse installato tra pavé disselciato e cariche della polizia, rifiutando di guardare oltre la sua giovinezza, il mondo che cambiava, invecchiava, regrediva.
Garrel è uno dei casi tipici del cinema: quello di un regista che, girando sempre film sublimi, osannati anche se pesantemente francesi, maestro di rigorose pellicole di idee e d’amore, quasi nessuno sa chi sia, quasi nessuno ha visto i suoi lavori, se non in raffinati cineclub o da noi in televisione, trasmessi poco prima dell’alba, e neppure doppiati. Eppure il pubblico è rimasto di sale, incantato: bianco e nero, visi innocenti di giovinezza dei rivoluzionari illusi, del poeti libertari che sognavano di non diventare mai famosi, barricate in strada e hashish in casa, amour fou e morte, in un lungo racconto nostalgico di tempi che malgrado tutto erano belli e vivi, e che agli scoraggiati giovani spettatori di oggi paiono favole.

da Il Mattino (Valerio Caprara)

     Les amants réguliers, quasi una risposta parigina e snobistica al film di Bertolucci sui ribelli del Sessantotto e dintorni, avrebbe dovuto confermare il credito spropositato di cui gode Philippe Garrel, discepolo di Godard e Truffaut nonché ex esponente della cultura psichedelica con la sua musa Nico (sette film insieme) dei Velvet Underground. Alla prova dello schermo la storia/non storia di due amanti partoriti dalla mistica gruppettara sesso, droga e rock and roll si è rivelata, invece, un indigeribile polpettone che, con la scusa di rievocare i sogni del maggio francese, mette a bagnomaria tutti i mitici canoni della Nouvelle Vague. Lungaggini insopportabili, metafore inconcludenti e dialoghi strimpellati finiscono col rendere omaggio all'unica «insurrezione» ancora ipotizzabile, quella del pubblico nel corso della proiezione.

TORRESINO - ottobre 2005 - PRIMA VISIONE
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