Pinocchio
Roberto Benigni
- Italia 2002 - 1h 45'

 
 

  Perché Pinocchio? Torna, con il film di Benigni, la domanda sulle istanze artistico-commerciali di un’opera/prodotto cinematografico, ma si ripresenta in una situazione paradossale poiché le risposte in realtà sembrano essere già state date: il Pinocchio di Collodi risulta (incredibile!) il libro più venduto nel mondo dopo la Bibbia, Roberto Benigni macinava da tempo l’idea (già accarezzata da Fellini) e la sua vocazione a portarlo sullo schermo è stata strombazzata ai quattro venti (massmediali) sulla base del curriculum di un personaggio che infervora schermi e teatri con la sua irruenza e la sua arguzia toscana, che frequenta e rivitalizza gli atenei declamando Dante, che ha avuto una fondamentale esperienza felliniana (La voce della luna) e che a livello registico ha amalgamato (collodianamente) la trasgressività del Piccolo diavolo e l’afflato umanitario di La vita è bella.

Eppure proprio nelle premesse si esalta e si illanguidisce questo Pinocchio che parte alla grande e poi sbiadisce tra lussureggianti “magie” di colori e ambienti. Le prime scene restano memorabili. La carrozza trainata dai topini bianche e la fata turchina che enuncia il monito essenziale “dare allegria è la cosa più bella che si possa fare al mondo”, tonalità e atmosfere oniriche… Poi la folgorante sequenza del tronco che impazza per le strade del paese fino a sbattere contro la porta di mastro Geppetto. Poi… Poi dal cinema (quello vero che inventa, inebria, emoziona) si passa allo spettacolo raffinato, autoriale e lezioso, ad un’ispirata regia teatrale che “vuole” farsi cinema con tanto di scenografie fiabesco-liberty (la dedica a Danilo Donati è doverosa), abbaglianti paesaggi e onirici quadri flou nella suggestiva fotografia di Dante Spinotti, l’accattivante (e felliniano) accompagnamento musicale di Nicola Piovani. Ma che resta solo trasposizione corretta, patetica esibizione “buonista” su pellicola, vogliosa di accontentare “testo” e pubblico (non è banale dietrologia quella che ha tirato in ballo discorsi di globalizzazione cinematografica, di compromesso realizzativo legato alla Miramax hollywoodiana e alla Medusa di Berlusconi: l’ansia di popolarità a 360°, il culto della persona, anche artistica, gioca dei brutti scherzi!)
Quando Geppetto finisce di scolpire il legno e “appare” Benigni che “si definisce” marionetta solo perché indossa il vestituccio di carta fiorita e il cappellino di mollica di pane e ha (da sempre) in sé la dinoccolata espressività di un attore-folletto straordinario, ciò che pervade lo schermo è un’ambiguità disarmante (e annoiante): Benigni interpreta Pinocchio nel senso più elevato del termine a livello di rappresentazione scenica , ma anche nel modo più estraniante sul piano filmico. La messa in scena è una coreografia cinematografica che accompagna uno straordinario protagonista del nostro secolo che ha fatto sue le istanze collodiane, che le ripropone in una simbiosi iconografica fedele e ispirata, in cui però il risultato è quello di spegnere il furore iconoclasta del miglior Benigni e di svilire la dimensione favolistica del libro. L’originalità di Pinocchio (così letto, apprezzato ma non così amato!) sta nel continuo alternarsi di anarchia (disobbedienza) infantile e adulta saggezza (moralismo), tra caratterizzazioni di situazioni e personaggi che “bucano la pagina”. I gendarmi, il gatto e la volpe, la fata turchina, il consesso dei medici, il paese dei balocchi, il ventre del pescecane: l’intrinseca verve iconografica del racconto è testimoniata dal fiorire di una pletora di edizioni illustrate, in tutti i paesi.

Ma il vero fascino sta in quel tronco che si trasforma in burattino di legno, che a sua volta assume sembianze umane. Il Pinocchio di Benigni è Benigni e basta. Un grande, eclettico Benigni, ma pur sempre solo un attore che interpreta con straripante personalità una personaggio famoso e che costruisce un film monocorde, ove riesce a trovare una dimensione sublimante solo nella bagarre multicolore del teatro di Mangiafuoco e nella finezza dell’ombra che suggella il ridimensionamento reale del personaggio fantastico. Ma che, per il resto, rimane amabilmente uguale a se stesso.
Quando alla fine il Pinocchio-burattino resta immobile e dinoccolato sulla sedia e il Pinocchio-Benigni compare negli abiti di un ragazzo-uomo, qualche piccolo spettatore in sala, pur soddisfattissimo e divertito, ha mormorato: “ma è come prima!”. Come è assente la sorpresa fiabesca del pezzo di legno che diventa bambino, così in
Pinocchio manca anche quel tocco magico che fa sì che l’immagine cinematografica diventi emozione.

ezio leoni  La Difesa Del Popolo - 20 ottobre 2002