Il profeta (Un prophète)
Jacques Audiard - Francia/Italia 2010 - 2h 30'

Gran Prix

  In un film di rara intelligenza e potenza, un carcere francese e un detenuto come non s'erano mai visti. Il carcere è sonnolento, inerte, con la sua popolazione divisa in gruppi etnici (gli arabi, i corsi), senza le solite violenze e sopraffazioni, senza giovani sodomizzati alle docce né vecchi con la gola tagliata: a parte i secondini servili, una sorta di limbo addormentato. Il nuovo detenuto è un ragazzo nord africano analfabeta, condannato a sei anni: il suo percorso di prigioniero, dalla inerme fragilità al potere, somiglia a una fortunata carriera libera in modo impressionante. "Il profeta" è naturalmente un titolo sardonico [...] Il film, lontano da ogni luogo comune e molto efficace, dai Césars è stato riconosciuto (nove premi) come il migliore dell'anno in Francia: ed e proprio cosi.

Lietta Tornabuoni - La Stampa

   Davvero notevole Il profeta. Come Gomorra sconsigliato agli animi sensibili. Come il film di Garrone - spostata l'attenzione dalla camorra alla condizione carceraria e all'immigrazione araba - non risparmia sulle efferatezze. Ma il punto, il pregio, è nel come il film rappresenta questo universo perduto. Il suo sguardo, che è lo sguardo del suo protagonista. Il ragazzo Malik. Soggetto privo di morale, quindi sguardo e film privi di giudizi morali. Che evitano e aggirano con originale imprevedibilità ogni stereotipo narrativo. Sta a noi trarre le conclusioni. Senza spiegazioni conosciamo questo Malik al suo ingresso in carcere. Non sappiamo che cosa abbia fatto. Piuttosto il suo destino ci appare segnato. Il panorama sociale e culturale, il deserto affettivo da cui proviene, hanno deciso la sua sorte. È analfabeta, inconsapevole, istintivamente formato alla scuola della sopraffazione e della diffidenza, alla legge dell'astuzia e del più forte, in un certo senso è un innocente. Una vittima. Che però impara in fretta. Anche a leggere e scrivere. In fretta trae profitto, capisce che per sopravvivere deve farsi lupo, da vittima carnefice. E sa applicare la lezione con prudenza, pazienza, furbizia. Sa apprendere e prendere, sopportare e aspettare. Appena dietro le sbarre, identificato (ingannevolmente) come anello debole e condizionabile della catena, viene cooptato e sottomesso dallo spietato gangster a capo della banda dei corsi, la più potente della prigione. Si dimostra disposto a tutto. Anche ai servizi più umili e umilianti, che lo rendono infame agli occhi degli altri arabi, musulmani. Fino a diventare uomo di fiducia (uomo di sfiducia, in realtà) del boss. Che gli affida incarichi sempre più importanti, dopo la prova decisiva: il feroce quanto impassibile omicidio di un rivale dentro il carcere. Non importa se d'ora in poi Malik sarà perseguitato dagli incubi, riesce a controllare anche quelli. E, quando l'oculata amministrazione della buona condotta gli consentirà di ottenere il permesso a uscire per lavorare, Malik si vedrà affidata la delega a trattare il traffico di droga. È arrivato il momento di uscire allo scoperto, di ribaltare i rapporti di forza, di tradire con la stessa determinata e metodica capacità di non fermarsi davanti a niente. Il business in proprio è ovviamente imperdonabile eppure Malik, benché senza alleati e solo come un conte di Montecristo vendicativo e spietato, saprà mettere a frutto l'apprendimento della regola unica - farsi temere - e ridurrà l'ex padrone a schiavo. Quando vedremo Malik, finita la pena, uscire e andarsene senza amici, non ci chiederemo se per caso è diventato un altro, redento e pronto a voltare pagina. È lo stesso ma più duro dell'inizio, sa che non c'è via di mezzo tra soccombere o sopravvivere. Ecco, gelido come una lama d'acciaio, senza suggerirci nulla se non una piatta esposizione, il film lascia il sapore di un pessimismo che più cupo non potrebbe.

Paolo D'Agostini - La Repubblica

   Il genere è quello carcerario, ma grazie all'assoluto controllo di regia Il profeta si staglia sulla terra di nessuno dove il cinema è solo e semplicemente cinema. Proprio come Gomorra, che non si limitava come hanno recepito alcune categorie di spettatori a esporre fotocopie di realtà, il film di film precedente in archivioJacques Audiardfilm successivo in archivio (figlio del dialoghista Michel, uno dei padri del cinema francese sconsacrato dalla Nouvelle Vague) ha la forza di ricreare in un romanzo di formazione criminale i meccanismi antropologici, psicologici, culturali, etnici e di classe che condizionano un itinerario individuale contro/dentro/nella collettività. Intanto non c'è bisogno alcuno - ottimo segno - di sviscerare la trama dettaglio per dettaglio perché si penalizzerebbe la sorpresa di scoprire attraverso quali, talvolta insostenibili, sensazioni di terrore, suspense o ripugnanza si verrà condotti a condividere habitat, codici, gerghi, gesti, abiti e persino strategie di potere e sensi di colpa dei maggiori e minori personaggi. [...] Persino rispetto ai classici americani, Il profeta si basa su una maggiore audacia fenomenologica, sul rigore di uno stile ancora più incandescente - a tratti iperrealistico, a tratti simbolistico - e su recitazioni che vanno addirittura ad affiancarsi a quelle mitiche di Pacino, Redford, Newman. Audiard, infatti, grazie all'accanita perfezione del dosaggio tra luci, effetti sonori, scelte d'inquadratura, movimenti di cinepresa e incastri di montaggio può tramandare alla pari, come indelebili (magari nei nostri incubi) protagonisti, tanto l'abbagliante novizio Tahar Rahim quanto il ciclopico veterano Niels Arestrup. Due ore e mezza sono lunghe, ma nel caso de Il profeta scandiscono la durata di un capolavoro.

Valerio Caprara - Il Mattino

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Il genere è quello carcerario, ma grazie all'assoluto controllo di regia Il profeta si staglia sulla terra di nessuno dove il cinema è solo e semplicemente cinema. Il film di Jacques Audiard ha la forza di ricreare in un romanzo di formazione criminale i meccanismi antropologici, psicologici, culturali, etnici e di classe che condizionano un itinerario individuale contro/dentro/nella collettività. Conosciamo il protagonista al suo ingresso in carcere. Non sappiamo che cosa abbia fatto. Piuttosto il suo destino ci appare segnato. Il panorama sociale e culturale, il deserto affettivo da cui proviene, hanno deciso la sua sorte. Appena dietro le sbarre, identificato (ingannevolmente) come anello debole e condizionabile della catena, viene cooptato e sottomesso: si dimostra disposto a tutto e imparerà che non c'è via di mezzo tra soccombere o sopravvivere... Due ore e mezza sono lunghe, ma in questo caso scandiscono la durata di un capolavoro, come Gomorra sconsigliato agli animi sensibili.

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TORRESINO - aprile 2010

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