Samsara
Ron Fricke
- USA 2011 - 1h 37'


   Diciannove anni dopo l’uscita del film cult Baraka, Ron Fricke è tornato.Tanto i cinema hanno dovuto attendere per vedere nuovamente le strabilianti immagini filmate dal direttore della fotografia di Koyaanisqatsi diretto da Godfrey Reggio. Come già avvenuto per il suo predecessore, anche Samsara stordisce per la bellezza dell’immagine. È nuovamente la pellicola da 70mm a garantire il doppio della definizione rispetto ai normali film che popolano le nostre sale. La nitidezza è massima, i colori brillano come scintille e il contrasto magnifico. Ogni scena dona naturale profondità ai luoghi filmati con il risultato di una mimesi percettiva che sa scalzare senza rimpianti i nuovi fasti del cinema in 3D. Fricke mantiene così la bidimensionalità di ciò che non può essere che tale, assicurando una visione cristallina, scevra dalla quasi totalità di disturbi visivi affinché lo spettatore, pur consapevole d’essere di fronte a uno spettacolo cinematografico, possa sottomettersi ad esso e subire coscientemente la sacralità che il regista stesso vuole trasmettere.
Se in
Baraka era il rapporto tra uomo e natura a essere indagato, in Samsara, come suggerisce il titolo stesso, è la circolarità della vita a catalizzare la carica comunicativa delle immagini. Dalla vita, alla morte, alla rinascita.
Nelle prime battute il tema non è così facilmente rintracciabile sullo schermo, un po’ per la bellezza dell’immagine e un po’ perché non sono ben chiari gli intenti, ma è con il passare dei minuti e con il fluire delle immagini che tutto ciò prende corpo fino alla circolarissima conclusione finale, dal sapore zen e dai fortissimi accenti qoheletiani. D’altronde il più filosofico tra i libri della Bibbia, quello di Qohèlet anche conosciuto come Ecclesiaste, sembra definire proprio le linee guida dell’intero discorso che sta alla base del film, saldandolo alle tradizioni religiose orientali con le quali troppe volte non viene stabilito il giusto paragone evidenziante punti ancestralmente accomunanti.
«La sorte degli uomini e quella delle bestie è la stessa: come muoiono queste, così muoiono quelli; c’è un solo soffio vitale per tutti. L’uomo non ha alcun vantaggio sulle bestie, perché tutto è vanità. Tutti sono diretti verso il medesimo luogo: tutto è venuto dalla polvere e nella polvere tutto ritorna.» Così sentenzia il Sapiente in Qoe 3, 19-20 e così inscena Fricke che dalla polvere del deserto sahariano ritorna alla polvere del deserto sahariano e dalla polvere colorata di un mandala ritorna alla polvere colorata di un mandala. È dunque l’uomo superfluo, se non addirittura dannoso, a questa terra secondo la visione di Ron Fricke? Sicuramente al regista sta a cuore sottolineare come l’essere umano abbia preso una direzione errata nell’evoluzione delle specie. Strade su strade dove macchine su macchine si rincorrono guidate da persone che mangiano animali maltrattati dal primo all’ultimo istante della loro misera vita, accoppiandosi con donne in plastica mentre loro, le femmine, sgualdrineggiano per locali notturni asservendo il degrado societario, ponendosi di fatto al medesimo livello delle bambole plasticose mostrate poco prima.
Questa è però solamente una parte dell’essere umano, e Fricke lo sa bene portando altrettanto attentamente la macchina da presa lontana dalle fabbriche di macchine, di carne, di corpi, per immortalare con ammirazione filosoficamente antropologica quelle società non ancora totalmente corrotte da questo virus di onnipotenza che scarnifica l’essere umano sgranocchiandogli istante dopo istante un cervello che, molto efficacemente, perde tutto il suo controllo sul proprio corpo nella memorabile sequenza della follia dell’uomo nell’ufficio, interpretata dall’artista Olivier de Sagazan.
Molte sono comunque le scene dal forte impatto visivo derivante da un silente messaggio che passa travalicando l’estetica dell’immagine. Si pensi alla scena dell’uomo seppellito in un bara a forma di pistola, oppure alle geometriche danze in costume. Tutto in questo film trasuda la volontà di Ron Fricke e del suo collaboratore Mark Mogidson di trasmettere una sacralità che risiede nel naturale fluire delle cose. Indice di ciò è anche il fatto di aver girato sempre in situazione di silenzio [dove possibile] non pensando minimamente alla parte della colonna sonora che, per stessa ammissione dei due autori, costituisce metà del prodotto finale. Le musiche, appositamente create, sostengono perfettamente le immagini senza prevaricarle e al contempo senza sottostarne passivamente. Seppure mi sento di elevare l’immagine di quest’opera a vera protagonista, è indiscutibile come la parte sonora sia fondamentale e perfettamente integrante la fruizione. Da questa interdipendenza tra immagine e suono ne emerge vincente assoluto un montaggio ineguagliabile, fantasticamente attento a trasformare con mimesi puntualissima un ambiente in un altro, un oggetto in un altro, offrendo visivamente allo spettatore la vera idea di trasformazione delle cose in un unicum che muta tutto, non mutando nulla.
Difetti ovviamente non ce ne sono da quest’opera che deriva da quell’altra,
Baraka, che già appariva perfetta vent’anni fa. L’appunto che però è possibile muovere a Ron Fricke è il riutilizzo parziale, seppur maggiormente consapevole, di alcune scene che già avevamo [intra]visto tra il già citato film del ’92 e persino il suo mediometraggio propedeutico del 1985 Chronos, dal quale mutua, per esempio, la scena [meravigliosa, per giunta] della luce che filtra in una deserta Basilica di San Pietro in Vaticano. Altra nota di merito và invece mossa nei confronti dei primi piani che Fricke pare non abbandonare in nessuna occasione. Con il lento dinamismo che contraddistingue, per esempio, una parte della produzione dell’artista visivo Robert Wilson, il regista scruta i volti attraverso appena percettibili movimenti del viso, nonché concentrandosi su marcatissimi occhi splendidamente evidenziati.
Samsara è dunque il nuovo capolavoro di Ron Fricke, riprendendo cinematograficamente quel medesimo discorso che da quasi vent’anni attendeva d’essere rinsaldato e integrato. Imperdibile, soprattutto in alta definizione.

Danilo Cardone - cinefobie.com



 

Più di 100 i luoghi, distribuiti in 25 paesi differenti, tra cui:
New Orleans dopo Katrina, giovani e vecchi immersi nell'immondizia alla ricerca di componenti elettronici, soldati feriti in battaglia, la danza tradizionale balinese, la cima del Monte St. Michael, lo Chateau de Versailles, l'Arches National Park nello Utah, le cascate Epupa, in Angola, i templi della valle di Bagan, Myanmar, la danza delle mille mani a Beijing in China, le pitture rituali dei guerrieri africani, il performer francese Olivier de Sagazan, Musulmani in preghiera in varie moschee nel mondo, Ebrei in preghiera dinnanzi al Muro del Pianto, la Kaaba alla Mecca.

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Samsara è una parola sanscrita che significa "l'infinito girare della ruota della vita" ed è il punto di partenza per la ricerca della sfuggente interconnessione che attraversa le nostre vite. Girato in pellicola per un periodo di quasi cinque anni in venticinque paesi, Samsara, senza dialogo o testo descrittivo, trasporta in luoghi sacri, zone sinistrate, siti industriali e meraviglie naturali sovvertendo le aspettative di un documentario tradizionale e incoraggiando un'interpretazione interiore, ispirata da immagini e musica che fondono l'antico con il moderno. Con l'unico commento di un'ipnotica colonna sonora ipnotica, il variopinto caleidoscopio visivo spazia dalle montagne ai bambini africani che giocano, dai monaci buddisti in preghiera alle piramidi d'Egitto, dalla basilica di San Pietro alla folla in preghiera alla Mecca, in un percorso che mette in scena nascita e morte, tradizione e modernità, fede e speranza, lotta e perdono. Samsara stordisce per la bellezza dell’immagine!