Diciannove anni dopo
l’uscita del film cult Baraka,
Ron Fricke è tornato.Tanto i cinema hanno dovuto attendere per vedere
nuovamente le strabilianti immagini filmate dal direttore della fotografia
di
Koyaanisqatsi
diretto da Godfrey Reggio. Come già avvenuto
per il suo predecessore, anche
Samsara
stordisce per la bellezza dell’immagine. È nuovamente la pellicola da 70mm
a garantire il doppio della definizione rispetto ai normali film che
popolano le nostre sale. La nitidezza è massima, i colori brillano come
scintille e il contrasto magnifico. Ogni scena dona naturale profondità ai
luoghi filmati con il risultato di una mimesi percettiva che sa scalzare
senza rimpianti i nuovi fasti del cinema in 3D. Fricke mantiene così la
bidimensionalità di ciò che non può essere che tale, assicurando una
visione cristallina, scevra dalla quasi totalità di disturbi visivi
affinché lo spettatore, pur consapevole d’essere di fronte a uno
spettacolo cinematografico, possa sottomettersi ad esso e subire
coscientemente la sacralità che il regista stesso vuole trasmettere.
Se in
Baraka
era il rapporto tra uomo e natura a essere indagato, in
Samsara,
come suggerisce il titolo stesso, è la circolarità della vita a
catalizzare la carica comunicativa delle immagini. Dalla vita, alla morte,
alla rinascita.
Nelle prime battute il tema non è così facilmente rintracciabile sullo
schermo, un po’ per la bellezza dell’immagine e un po’ perché non sono ben
chiari gli intenti, ma è con il passare dei minuti e con il fluire delle
immagini che tutto ciò prende corpo fino alla circolarissima conclusione
finale, dal sapore zen e dai fortissimi accenti qoheletiani. D’altronde il
più filosofico tra i libri della Bibbia, quello di Qohèlet anche
conosciuto come Ecclesiaste, sembra definire proprio le linee guida
dell’intero discorso che sta alla base del film, saldandolo alle
tradizioni religiose orientali con le quali troppe volte non viene
stabilito il giusto paragone evidenziante punti ancestralmente
accomunanti.
«La sorte degli uomini e quella delle bestie è la stessa: come muoiono
queste, così muoiono quelli; c’è un solo soffio vitale per tutti. L’uomo
non ha alcun vantaggio sulle bestie, perché tutto è vanità. Tutti sono
diretti verso il medesimo luogo: tutto è venuto dalla polvere e nella
polvere tutto ritorna.» Così sentenzia il Sapiente in Qoe 3, 19-20 e
così inscena Fricke che dalla polvere del deserto sahariano ritorna alla
polvere del deserto sahariano e dalla polvere colorata di un mandala
ritorna alla polvere colorata di un mandala. È dunque l’uomo superfluo, se
non addirittura dannoso, a questa terra secondo la visione di Ron Fricke?
Sicuramente al regista sta a cuore sottolineare come l’essere umano abbia
preso una direzione errata nell’evoluzione delle specie. Strade su strade
dove macchine su macchine si rincorrono guidate da persone che mangiano
animali maltrattati dal primo all’ultimo istante della loro misera vita,
accoppiandosi con donne in plastica mentre loro, le femmine,
sgualdrineggiano per locali notturni asservendo il degrado societario,
ponendosi di fatto al medesimo livello delle bambole plasticose mostrate
poco prima.
Questa è però solamente una parte dell’essere umano, e Fricke lo sa bene
portando altrettanto attentamente la macchina da presa lontana dalle
fabbriche di macchine, di carne, di corpi, per immortalare con ammirazione
filosoficamente antropologica quelle società non ancora totalmente
corrotte da questo virus di onnipotenza che scarnifica l’essere umano
sgranocchiandogli istante dopo istante un cervello che, molto
efficacemente, perde tutto il suo controllo sul proprio corpo nella
memorabile sequenza della follia dell’uomo nell’ufficio, interpretata
dall’artista Olivier de Sagazan.
Molte sono comunque le scene dal forte impatto visivo derivante da un
silente messaggio che passa travalicando l’estetica dell’immagine. Si
pensi alla scena dell’uomo seppellito in un bara a forma di pistola,
oppure alle geometriche danze in costume. Tutto in questo film trasuda la
volontà di Ron Fricke e del suo collaboratore Mark Mogidson di trasmettere
una sacralità che risiede nel naturale fluire delle cose. Indice di ciò è
anche il fatto di aver girato sempre in situazione di silenzio [dove
possibile] non pensando minimamente alla parte della colonna sonora che,
per stessa ammissione dei due autori, costituisce metà del prodotto
finale. Le musiche, appositamente create, sostengono perfettamente le
immagini senza prevaricarle e al contempo senza sottostarne passivamente.
Seppure mi sento di elevare l’immagine di quest’opera a vera protagonista,
è indiscutibile come la parte sonora sia fondamentale e perfettamente
integrante la fruizione. Da questa interdipendenza tra immagine e suono ne
emerge vincente assoluto un montaggio ineguagliabile, fantasticamente
attento a trasformare con mimesi puntualissima un ambiente in un altro, un
oggetto in un altro, offrendo visivamente allo spettatore la vera idea di
trasformazione delle cose in un unicum che muta tutto, non mutando nulla.
Difetti ovviamente non ce ne sono da quest’opera che deriva da quell’altra,
Baraka,
che già appariva perfetta vent’anni fa. L’appunto che però è possibile
muovere a Ron Fricke è il riutilizzo parziale, seppur maggiormente
consapevole, di alcune scene che già avevamo [intra]visto tra il già
citato film del ’92 e persino il suo mediometraggio propedeutico del 1985
Chronos, dal quale mutua, per esempio,
la scena [meravigliosa, per giunta] della luce che filtra in una deserta
Basilica di San Pietro in Vaticano. Altra nota di merito và invece mossa
nei confronti dei primi piani che Fricke pare non abbandonare in nessuna
occasione. Con il lento dinamismo che contraddistingue, per esempio, una
parte della produzione dell’artista visivo Robert Wilson, il regista
scruta i volti attraverso appena percettibili movimenti del viso, nonché
concentrandosi su marcatissimi occhi splendidamente evidenziati.
Samsara è dunque il nuovo capolavoro di Ron Fricke, riprendendo
cinematograficamente quel medesimo discorso che da quasi vent’anni
attendeva d’essere rinsaldato e integrato. Imperdibile, soprattutto in
alta definizione.
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