16° Settimana internazionale della critica

GeGe
Yan Yan Mak - Hong Kong 2001- 1h 30'
[opera prima]

Lo spazio veneziano della Settimana Internazionale della Critica, gestita dal Sindacato (SNCCI) è ormai una zona franca del cinema d'essai, forse un po' ridotta in questi anni dai gusti affini dei selezionatori ufficiali della Mostra. Ma il panorama della rassegna, che comprende solo opere prime, riserva sempre cinefile sorprese. Lo è di certo GeGe (Fratello maggiore) di Yan Yan Mak , girato in un digitale quasi amatoriale, un'opera scarna, ripetitiva, talvolta stagnante, eppure alla distanza tonica e vibrante. Il tutto parte da una fotografia-cartolina spedita al giovane Ah Ming da suo fratello maggiore, "esule" dalla famiglia e da Hong-Kong da lunghi anni. L'ultimo indizio del suo vagabondare è quella foto, scattata tre anni prima in uno sperduto villaggio del Qinghai. Ed è lì che Ming concentra le sue ricerche dopo un estenuanate viaggio, prima in treno, poi in autobus, infine a piedi col suo zaino sulle spalle. Se il senso del suo cammino di ricerca e della desolazione che lo accompagna ( il Qinghai è un remoto altopiano a quattromila metri di altitudine) si coniuga con l'incerta incisività delle immagini, la luminosa serenità del paesaggio e la cromaticità ovattata di prati e cieli del Tibet sembrano identificarsi con le sommesse emozioni del protagonista, mentre l'aggressiva sonorità della chitarra acustica di Wang Lei dà buona eco alla sotterranea esuberanza giovanile che anima quest'opera così lontana dagli standard esotici a cui il cinema orientale ci ha abituato. Ming incontra alla fine un amico del fratello, conosce la sua ragazza, riesce a recuperare altre foto, alcuni filmati in Super 8, una mappa della Cina in cui sono segnate le tappe del suo viaggio. Nella sua stanza, che già fu del fratello, arriva come a materializzare la sua presenza,a percepirne lo spirito di errabonda interiorità. Che è poi l'anima del cinema di questa ventottenne regista, già assistente di Wong Kar-Way: "Si può dire che Gege sia addirittura la storia di me stessa e del mio girare film. Il protagonista, una volta cominciata la ricerca, non può fare altro che portala a compimento. Una volta salito in treno, non può più scendere sino alla destinazione finale. Fare un film è come salire su un treno che non fa fermate intermedie. Non puoi più smettere di andare avanti".

e.l. Il Mattino di Padova - 1 settembre 2001

 

Shojo
Eiji Okuda - Giappone 2001- 2h 12'
[opera prima]

Eiji Okuda, giapponese, cinquant'anni è al suo esordio nella regia, ma vanta un ricco suo curriculum d'attore (qualche cinefilo accanito lo ricorderà in Morte di un maestro di tè) ed anche in questo suo Shojo (Un'adolescente) impressiona per l'interpretazione disadorna ed intensa oltre che per la sicura mano registica. In una storia complessa, che mescola squallore esistenziale e tormenti sentimentali, Okuda è Tomokawa, poliziotto disilluso che vive tra piccoli loschi espedienti, che abusa del sesso e della buona fede della gente. Nel suo bighellonare in bici per la città incontra un giorno Yoko, quindicenne, che gli si offre per denaro: è l'inizio di una relazione appassionata che li coinvolge sempre più e che mette in gioco, con un disvelamento narrativo crudo e inaspettato, essenziali personaggi di contorno come Sukesama, il fratello ritardato di Yoko e la loro madre, che in gioventù è stata la donna di Tomokawa. Su questo aggancio romantico si innesta l'essenza di Shojo che propone in modo libertino una riflessione amara sullo sconforto della mezza età, sull'ambigua moralità di un rapporto così impari (oltre che all'età Okuda punta sui ruoli contrapposti dello smaliziato poliziotto e dell'ingenua studentessa), sulle occasioni perdute. Sì perché l'antico legame d'amore si spezzò anche per l'opposizione familiare che non permise alla donna di tatuarsi la schiena con l'immagine della fenice. Quel tatuaggio, di speculare simbiosi magico-romantica, è rimasto incompleto e solo il "maschio" campeggia sul dorso di Tomokawa. Toccherà proprio al nonno di Yoko "completare" la nuova relazione istoriando la schiena della nipote e permettendo alla fenice di spiccare il suo volo. Okuda affronta in lucida analisi simbolismi atavici e nuovi feticismi, infatuazioni adolescenziali e gelosie adulte, ma il suo sguardo sembra accompagnato da un'implicita, immancabile condanna. Alle immagini liberatorie di Tomokawa e Yoko che, in viaggio verso un nuovo destino, affiancano felici le loro schiene dipinte, si sovrappone un sordo, "estraneo" colpo di pistola...

e.l. Il Mattino di Padova - 2 settembre 2001

 

Rain
Katherine Lindberg - USA 2001- 1h 37'
[opera prima]

Un treno che corre veloce nella notte fa da apertura a Rain di Katherine Lindberg, ma il senso di movimento che la scena suggerisce è puramente fittizia. Questa terza opera della Settimana della Critica è un film sulla staticità, sulla stagnazione delle esistenze, sugli sterminati terreni riarsi dello Iowa dove i personaggi vagano sperduti, incapaci di una nuova dinamica interiore che li faccia evadere dalla loro solitudine. Eppure Rain è anche una tragedia molto "mossa", articolata su tante sfaccettature personali, su tradimento e sesso, violenza e sangue. Proprio il transitare iniziale di quel treno fa da sipario alla relazione cardine del film: in un'auto ferma al passaggio a livello Paul Biddle e Patsy Gibson consumano la loro notte d'amore. A casa Biddle intanto Ellen attende, tesa, il rientro del marito. Quando, all'alba, Paul fa ritorno, la loro conversazione è di poche battute: Ellen imbraccia un fucile e lo fa secco! A partire da questa situazione di forte angoscia prende corpo il racconto della Lindberg che inanella disagi e tensioni, desideri e sensualità di una piccola, emblematica cittadina del Midwest. Patsy, che si era abituata a lasciar vuota la propria alcova matrimoniale, è la moglie dello sceriffo Tom Gibson, in corsa per la carica di sindaco. Questi ha fatto da poco ritorno nel suo paese d'origine, con la moglie, due bambini piccoli e un figlio di primo letto, Richard, vent'anni, che proprio con Ellen intrattiene una torrida relazione. Come se non bastasse c'e stata una storia, in gioventù, tra lei e lo sceriffo... Peyton Place rivisitata? Qui i personaggi sono davvero pochi (oltre a quelli citati entrano nella storia solo due amici di Richard e la madre di Ellen), ma fanno da protagonisti aggiunti il paesaggio (con i campi lunghi che lo ritagliano in intensi quadri rurali), lo scarno commento musicale, il rosso del sangue che ridipinge le pareti della cucina di casa Biddle, che imbratta la camicia di Richard. La sua passione per Ellen lo spinge infatti a tacitare a colpi di coltello la matrigna, messa in apprensione dalla scomparsa di Paul, ma intanto Ellen ha deciso, infine, di abbandonare la sua casa-prigione, di uscire dall'opprimente microcosmo che ha ingabbiato il suo vivere. C'è spazio per un ulteriore, lancinante colpo di scena, ma al di là del torbido groviglio narrativo l'esprimersi di Katherine Lindberg in questa sua opera prima passa attraverso i tormenti dei singoli, la presenza scenica delle sue sensuali interpreti (Malora Walters e Jo Anderson), l'assurda ingenuità dei comportamenti criminali (quel cadavere tenuto prima nel bagagliaio della macchina, lasciato poi a pelo d'acqua accanto alla spiaggia), la fascinazione visiva di ogni inquadratura. Il fuoco purificatore che disegna l'ultima scena ribadisce la forza evocativa di Rain e l'intraprendenza registica di questa trentenne che ha nel cuore La rabbia giovane e Velluto blu e ha saputo trovare per il suo esordio nientemeno che l'appoggio produttivo di Martin Scorsese.

e.l. Il Mattino di Padova - 3 settembre 2001

 

Tornando a casa
Vincenzo Marra - Italia 2001- 1h 28'
[opera prima]


Cinema italiano coi sottotitoli. Buon segno. Vuol, dire che emerge alfine l'allergia dei giovani autori verso la standardizzazione del linguaggio e che il provincialismo torna coraggiosamente a farsi qualità. Tornando a casa, di Vincenzo Marra, richiama Lacapagira, uscito l'anno scorso e tutto parlato in barese stretto, ma il vero riferimento è La terra trema di Visconti (1948): attori non professionisti, l'ambiente dei pescatori, un deciso taglio drammatico. Siamo nel canale di Sicilia, ma Salvatore, Franco e Giovanni vengono da Napoli. Con loro Samir, un immigrato africano. Salvatore osa spingersi nelle acque tunisine, nonostante le proteste del suo equipaggio. Lì la pesca è più proficua, ma è alto il rischio di essere intercettati dalla guardia costiera. Nel buio della notte, tra il rumore del mare e le grida dei pescatore si aprono le immagini di Tornando a casa. Il tono è quello documentaristico, il taglio delle riprese incombente (macchina da presa a mano, primi piani, inquadrature dall'alto al basso), il ritmo concitato. Il temuto arrivo della motovedetta tunisina che apre il fuoco li costringe a tagliare le reti, ad organizzare un ulteriore rischioso viaggio per recuperarle, a decidere per un immediato rientro a Pozzuoli a sistemare il motore del loro peschereccio, colpito dalla pallottole. Finalmente a casa. Ma tensioni e problematiche restano, urgenti. I boss locali si oppongono alla presenza nel golfo di nuova forza lavoro, Franco vorrebbe mollare tutto e partire per l'America (ma al sua ragazza, Rosa è decisa a restare), gli usurai tentano di incastrare Salvatore per togliergli l'autonoma proprietà del sua barca... Il ritorno nelle acque siciliane è obbligato, anche per Franco che nel frattempo ha perso ogni stimolo di realizzazione personale dopo che Rosa è stata uccisa da un fortuito colpo di pistola. È proprio su di lui che Marra punta ora la macchina da presa, e la regia, che si era come acquietata nel golfo di Napoli, torna a farsi "agitata", anche nelle dinamiche esistenziali. Franco medita il suicidio, ma all'ultimo ci ripensa. Poi, nella notte raccoglie le segnalazioni di un gruppo di clandestini in difficoltà e quando vede un uomo in mare non esita a tuffarsi in suo soccorso. Samir e gli altri lo cercheranno fino all'alba, ma anche nella luce del giorno il loro tentativo non avrà esito. Franco è stato preso a bordo dalla barca dei clandestini, poi raccolto con loro dalla guardia di Finanza. E qui Tornando a casa ha la sua svolta, superando la connotazione documentaristico-sociale per assumere un preciso significato simbolico di dramma individuale, di negazione del proprio essere, di identificazione in un'unica, composita etnia di uomini senza terra e senz'anima. Resa irriconoscibile la propria foto sulla carta d'identità, Franco si mescola agli immigrati africani rispediti dalla polizia nella loro terra. In mare aperto i marinai del Marilibera danno l'addio al loro compagno e tornano a pescare.

e.l. Il Mattino di Padova - 4 settembre 2001

 

Un moment de bonheur
Antoine Santana - Francia 2001- 1h 24'
[opera prima]

Cresce la Settimana della Critica che fin dai primi giorni ha offerto prodotti sempre più che dignitosi (e per qualcuno Shojo è un'opera matura, da premiare...), ma che ieri è "esplosa" con il forte impatto di Tornando a casa e che oggi ribadisce la presenza di giovani autori sagaci nell'organizzare l'amalgama di forma e contenuto con Un moment de bonheur di Antoine Santana. "La mia intenzione era di fare un film su un momento chiave della gioventù. La storia descrive il passaggio dall'adolescenza alla maturità, nell'arco di una giornata. Sono le vite incrociate di una coppia di giovani adulti, e in particolare quella di una ragazza, che passa da uno stato di madre-bambina, a quello di persona responsabile e quindi cosciente della propria maternità" . E il film si apre su Philippe, che giunge di primo mattino in un paesino dalla Francia per lavorare come cameriere stagionale e incontra casualmente Betty, ragazza-madre in forte contrasto con la propria famiglia d'origine. I loro percorsi sono destinati a riintreccarsi dopo che Philppe, coinvolto in una rissa con il suo datore di lavoro, è fuggito a bordo di una macchina rubata e ha investito un bambino. Betty, in pausa dal lavoro perché sopraffatta dalla noia del vivere, lo coinvolge in una spensierato pomeriggio al mare: è l'occasione per un momento di liberta e di felicità, per il classico sboccare di un amore che vede però la tragedia in agguato. Quel bambino è proprio Damien il figlio di Betty , ma nessuno dei due protagonisti ne è a conoscenza, lo spettatore sì... Ciò che convince in Un moment de bonheur è l'astuzia con cui Santana intreccia gli eventi, l'uso inaspettato, in una storia intimista, dei flash-forward, la pacatezza del racconto che all'improvviso sembra imboccare la strada del dramma, in una coinvolgente frenesia di movimenti di macchina e tagli di montaggio. Il gioco del caso è quello che sostiene l'evolversi della vicenda, l'angoscia ne diventa la struttura portante, la delicatezza del lieto fine una plausibile conclusione.

e.l. Il Mattino di Padova - 5 settembre 2001

 

Rasganco
Raquel Branco Rodrigues Freire - Portogallo/Francia 2001- 1h 40'
[opera prima]

Diffidare del cinema portoghese. Fin "da piccolo" esibisce quell'intellettualismo estetizzante e funereo che solo la maestria di autori come Manoel De Oliveira e Joao Bothelo riesce a stemperare. Raquel Freire, al suo esordio, infarcisce il suo Rasganco (Lo strappo) di materiali visivi d'effetto, imbastendo, tra contestazione sociale e ambiguità sensuale, una storia che sfocia nel sexy-horror. Edgar, pochi bagagli e molto aplomb, arriva a Coimbra e fa strage di cuori: Ana Rita, giovane studentessa di buona famiglia, Maria dos Anjos, assistente sociale dell'Istituto che lo ospita, Zita Portugal, ricca e matura esponente dell'alta borghesia cittadina. Ma fa strage anche di giovani e belle studentesse che rapisce, violenta, sfregia brutalmente, incidendo col coltello indecifrabili segni sui loro petti. L'austera scenografia universitaria di Coimbra fa da sfondo al torvo girovagare di Edgar che, incapace di conservarsi un posto di lavoro, sente il rifiuto di un ambiente elitario inesorabile nello snobbare, anche negli appuntamenti giovanili mondani, i non-acculturati par suo. Tra cupe grotte illuminate solo dalle candele e nudi corpi femminili coperti di sangue Rasganco non va oltre un prodotto di buona confezione che mira a stupire più che ad avvincere, che si arena in un tedioso declamare (gli articoli del codice penale), che racconta con calligrafico snobismo e scompaginata verosimiglianza. E non è l'indagine della polizia, finalmente giunta ad individuare il colpevole, a chiudere la partita. "Vampiro" sociale pericolosamente destabilizzante Edgar gira indisturbato per Coimbra, con il suo mazzo di fiori per Ana Maria, arrivata alla laurea. E quando, al termine della festa di rito, lei lo cerca con lo sguardo, di lui, all'improvviso, non c'è più traccia. Certo Ana Maria ci sarà restata male, a noi è parsa una liberazione.

e.l. Il Mattino di Padova - 6 settembre 2001

 

Vagon Fumador
Veronica Chen - Argentina 2001- 1h 28'
[opera prima]

Mancava, nell'excursus della rassegna della Settimana della Critica l'eccesso narrativo e figurativo. Ci pensa con Vagon Fumador Veronica Chen, una trentenne argentina con una laurea in regia, già assistente al montaggio in varie produzioni (anche per Garage Olimpo di Bechis) ed autrice di numerosi cortometraggi. Ora con questa sua opera prima dimostra una notevole grinta autoriale, affiancata ad una visione della vita cupa ed estrema. O forse "gioiosa" se si vuol leggere la vicenda di Reni e Andrés come un'avventura smaliziata tra notti di sesso e musica. Andrés, "roller ai piedi e vuoto nel cuore", percorre la notte di Buenos Aires prostituendosi con altri uomini dovunque capiti, anche nei locali bancomat all'interno delle banche. È lì che lo incontra Reni, cantante (svogliata) di una rock-band locale, sperduta in una insoddisfazione esistenziale esibita, disponibile al dialogo, all'amore, al sesso. Il coinvolgimento che le offre Andrés è totale: i due vagabondano per la città, bilanciano le loro solitudini, intrecciato i loro corpi in una spensieratezza apparente che la sgranatura del 16 mm "gonfiato" della Chen mette anche visivamente alla corda. Colori lividi, sonorità fusion, un uso della macchina da presa inquieto e inquietante. Andrés conduce per mano Reni nel suo sordido ambiente, lei si prostituisce con disinibita esuberanza, la regia gioco con lo sperimentalismo con la stessa liberatoria intraprendenza con cui i due protagonisti affrantano il loro destino. Il montaggio ("mosso" è dir poco) inframezza qua e là le immagini dei polsi di Reni che grondano sangue, la separazione da Andrés è una tappa obbligata, il treno che la porta, solitaria, incontro al suo destino, un finale aperto che non dà sbocco al teorema nichilista di Veronica Chen. Identità negate, ideali latitanti, cinema confuso.

e.l. Il Mattino di Padova - 7 settembre 2001

 

Il ritorno di Harry Collings (The Hired Hand)
Peter Fonda
- USA 1971- 1h 33'
[opera prima]

Per una generazione (ma non solo) il ricordo di Peter Fonda è legato al road-movie principe degli anni '60, quell'Easy Rider che il giovane Peter, allora trentenne, produsse con l'amico e cointerprete Dennis Hopper. Quella pellicola immortalò il desiderio di selvaggio vagabondare dei giovani americani di allora, la loro confidenzialità con la droga, il fascino immaginifico dei paesaggi USA, dello sfrecciare delle motociclette (anzi chopper!) sulle interminabili highway. Per Hopper fu anche un eccezionale biglietto da visita come regista, mentre per Fonda si rivelò quasi un intoppo nell'evolversi della carriera: "Mi volevano vedere solo in sella ad una motocicletta, mentre mi drogavo" ricorda oggi "e quando due anni dopo volli esordire nella regia tutti si aspettavano in film in stile Easy Rider". Invece Peter Fonda sfornò, nel 1971, un western come Il ritorno di Harry Collings, oggi restaurato e presentato come evento speciale all'interno della Settimana Internazionale della Critica. Rivedere un film così datato e così significativo di quell'epoca è una di quelle emozioni forti che mancavano a questo Festival. Il ritorno di Harry Collings (The Hired Hand) fu un esempio di western autunnale che spiazzò allora pubblico e critica: il protagonista (Fonda) torna, accompagnato dall'amico Arch (Warren Oates), da moglie e figlia dopo anni di errabonde avventure. Il suo arrivo è salutato con diffidenza dalla signora Collings (Verna Bloom), che non ha più fiducia di quell'uomo che l'ha abbandonata per così lungo tempo. Anche Harry non può essere entusiasta della consorte che si è arrabattata con cowboy di passaggio che l'anno aiutata nei lavori alla fattoria e talvolta consolata nel letto. Quando alfine la serenità sembra tornata in casa Collings, Harry viene ucciso in uno scontro a fuoco. 
Malinconico e crepuscolare, pacato nel ritmo e sofisticato nelle scelte formali (cromatismi, dissolvenze incrociate) il film era rimasto nel cuore dei pochi che l'avevano visto e specialmente in quello del suo regista che aveva sofferto allora del giudizio superficiale dei critici americani e dall'inadeguata distribuzione che ne era seguita. Questa riedizione e l'attenzione della Mostra è per lui una specie di riscatto. Nella sua appassionata dichiarazione d'amore per certo cinema, rivive la vecchia tradizione di casa Fonda: " I film, non solo i western, sono una metafora della vita. Attraverso il cinema noi autori mostriamo al mondo l'essenza degli ideali americani; ed è nel western che emergono meglio che in qualsiasi altro genere".

ezio leoni  Il Mattino di Padova - 8 settembre 2001