The Look of Silence |
Premio speciale della Giuria - VENEZIA 71 |
Attraverso
il lavoro di Joshua Oppenheimer, che ha filmato i responsabili del
genocidio indonesiano, una famiglia di superstiti viene a sapere che è
stato assassinato il figlio e scopre l’identità degli uomini che
l’hanno ucciso. Gli assassini vivono in fondo alla strada e sono al
potere fin dal genocidio. Il figlio minore della famiglia, un
optometrista, cerca di elaborare il passato e chiede come potrà
educare i suoi figli in una società in cui i sopravvissuti sono
costretti al silenzio: tutti sono talmente terrorizzati da trattare
gli assassini come eroi. In cerca di risposte, l’uomo decide di
affrontare gli nomi che hanno ucciso suo fratello. I responsabili
detengono ancora il potere, affrontarli è pericoloso. Gli assassini
reagiscono con paura, rabbia e minacce, ma l’uomo si comporta con
dignità, ponendo domande crude su come gli assassini vedano i loro
atti, su come facciano a vivere accanto alle vittime e cosa credono
queste di loro.
The Look of Silence
compie qualcosa che
non ha precedenti nella storia del cinema e nei luoghi colpiti dal
genocidio: documenta il confronto fra i superstiti e gli assassini dei
loro parenti in mancanza di un processo di verità e riconciliazione,
mentre i responsabili restano al potere.
Le parole di fronte
e attorno al lavoro di Oppenheimer finiscono per essere un ricamo
colpevole di indurre uno spostamento del significato dell’intera
operazione del regista, la quale si basa sul vedere e il sentire.
Sguardo e silenzio appunto, nei quali sono ingabbiate le emozioni più
represse, ammutolite dal terrore e dal sangue, e dentro i quali
definire fermamente una parvenza di senso. Tale e tanta è la portata
della forza delle immagini di Oppenheimer che è difficile rintracciare
similarità nel cinema documentario. Werner Herzog e Errol Morris
risultano come produttori esecutivi nella lunga lista di produttori e
co-produttori e soprattutto membri di un gruppo di lavoro costretto a
rimanere anonimo per ragioni di sicurezza, e sembrano stare lì a dire
a indicarci, ancora più a chiare lettere, quanto sia smisurato lo
sguardo della macchina da presa del regista texano. Perché è proprio
grazie al suo atto di vedere che viene prodotta, letteralmente, come
una scrittura in movimento che prende vita grazie alla magia o al
mistero celati dietro l’obiettivo del cinema, la memoria, che dunque
può essere anche trasmessa, e senza la quale tutto finirebbe per
essere dimenticato, assecondando l’aspirazione dell’assoggettamento
totalitario e degli stati che l’hanno tacitamente appoggiato.
“Scordiamo il passato. Andiamo d'accordo come ci ha insegnato la
dittatura militare. Così va la vita su questa terra“, dice l’assassino
con l’incedere melenso della voce annoiata di chi non ha nulla di cui
colpevolizzarsi. |
Alessandro Tognolo - ottobre 2014 - pubblicato su MCmagazine 36 |