The President
Mohsen Makhmalbaf - Georgia/Francia/UK/Germania 2014 - 1h 55'

 Orizzonti - VENEZIA 71



    Che viviamo in tempi turbolenti è sotto gli occhi di tutti. Lo sa anche Mohsen Makhmalbaffilm precedente in archivio, che torna alla finzione dopo anni di documentari con uno dei suoi lavori più malinconici e vividi. Il veterano autore di Salaam Cinema, che nel tempo si è costruito una eccentrica carriera apolide in giro per tutto l’Oriente (dall’India all’Afghanistan, dalla terra natìa ai lidi sconosciuti di The President), ha ancora voglia e forza di raccontare appassionatamente, almeno quanto di dare ai suoi familiari gli strumenti cinematografici per esprimere il loro punto di vista sul mondo. Per la sua ultima opera, Makhmalbaf si avvale della collaborazione in fase di sceneggiatura della moglie Marzieh Meshkin, anch’essa a sua volta regista, autrice molti anni fa di un bellissimo esordio, Roozi ke zan shodam-Il giorno in cui sono diventata donna. Da quando il cinema iraniano è passato di moda tra i cinefili, si dicono e scrivono un mucchio di banalità su autori come Makhmalbaf: ma un prodotto come The President è capace di risvegliare dal torpore con le armi del lirismo ruvido quanto sconsolato in cui ammanta il suo (esecrabile?) protagonista.
In un anonimo paese nell’area geografica russo-georgiana (lingua in cui di fatto il film è parlato da un cast di attori caucasici), dopo decenni di tirannia il popolo è ormai stanco del Dittatore, che si permette di far accendere e spegnere le luci della città al suo nipotino, futuro reggente. Prima a rivoltarsi è la gente di strada, dopo l’esercito. E Il Dittatore, il Presidente del titolo, deve mettersi al sicuro prima di perdere anche l’ultimo uomo fedele.
Makhmalbaf concepisce
The President come una corsa contro il tempo verso la salvezza, rappresentata da un confine naturale, il mare. Man mano che il Presidente fugge dalla città, il film vede scoprirsi la sofferenza del popolo oppresso, e oscurarsi la fierezza di un potente decaduto che fugge ramingo. La regia non ha fretta, indugia sulle tante anime di genti segnate da soprusi che sarebbe ipocrita ricondurre ad un uomo solo. La struttura narrativa chiastica ci mostra prima il Presidente come uomo spietato e privo di scrupoli, capace solo di pensare alla pellaccia propria e dei propri (qui e là un po’ repellenti) cari. Ma man mano che la narrazione procede, attraverso snodi drammatici (magistrale la sequenza della fuga in limousine tra la folla, in cui il ritmo accelera violentemente), Makhmalbaf è in grado di scoprire la nudità del potere di pari passo con la ferocia (e l'ipocrisia: vedi i collaboratori di palazzo) degli oppressi.
Il contrasto profondo tra città e campagna di questo paese immaginario in cui si svolge la vicenda, che rimanda anche al paese d'origine del suo autore, provoca dei notevoli squarci apocalittici, che si inseriscono armonicamente in un tessuto a metà tra il surreale road movie e il pamphlet politico. Il risultato è un film atipico, originale dal punto di vista figurativo, che sa come e dove affondare quando si presentano i dilemmi morali. E che, in fondo, sa anche colpire emotivamente lo spettatore, con un finale in grado di scuotere per come riesce a farci prendere a cuore le sorti di un sanguinario, lurido dittatore. Che può, come noi, conoscere amarezza e solitudine.

Pietro Liberati - ottobre 2014 - pubblicato su MCmagazine 36