Under the Skin
Jonathan Glazer - United Kingdom/USA 2013 - 1h 47'

Venezia 70- Concorso


 

   Un occhio che si apre, un corpo che prende vita dal buio. Una (palin)genesi cupa e misteriosa perfetta per la riflessione fantascientifica oscura e rassegnata del terzo lungometraggio di Jonathan Glazer. Under the Skin è ispirato all’omonimo impressionante romanzo di Michael Faber, dal quale risucchia (non a caso) la linfa per portare sullo schermo il percorso formativo tragico di una ragazza. Che poi questa ragazza sia un’aliena lo sappiamo a priori perché leggiamo le trame e le recensioni ma, esattamente come nel libro, il riconoscimento della natura aliena di questo essere “caduto sulla terra” avviene gradualmente, e coinvolge, in duplice senso, sia la protagonista sia lo spettatore. È più che consigliato dunque cercare di approcciare il film senza quel pregiudizio automatico che scatta nell’immaginazione quando di pensa all’estraneo proveniente da un altro mondo. Perché è questo nostro mondo a risultare il vero estraneo se, come nell’idea del regista, si prova a osservarlo con occhi diversi.
Scopo dell’aliena è catturare maschi umani affinché si possa assimilarne la carne. Nutrimento dunque, ma ben oltre la sopravvivenza. Più che il motivo, il film ci mostra le modalità e i tentativi con cui vengono scelte le vittime, perlopiù autostoppisti e passanti che lei incrocia nel suo indolente girovagare in furgoncino per le Highlands scozzesi. Tuttavia la caccia, per la predatrice, non è altro che un dovere, o meglio, un destino dai risvolti punitivi. E lo è a partire dall’involucro che l’essere è costretto a indossare: un corpo designato per uno scopo: attirare. Un corpo sessuale, le cui forme non permettono via di scampo al desiderio. E allo stesso tempo un corpo estraneo, incomprensibile, inaccettabile.

Com’è evidente fin dal titolo, il film rimanda a una dimensione del significato sconosciuta sottesa al tessuto imposto dal segno. E in tal senso il regista inglese dimostra un’abilità inaspettata, puntando a una sottrazione minimale e a una ripulitura del canovaccio per propagare un’inquietudine, uno smarrimento, un’astrazione che non hanno bisogno di essere colmati. Se nel precedente e imperfetto Birth. Io sono Sean (2004) l’enigma si procreava dal verbo, qui le parole sono quasi del tutto assenti, e fanno parte più del contesto sonoro che di quello narrativo. Emerge dunque tutto il talento visivo di Glazer, maturato nell’esperienza con videoclip e spot, per molti un mondo corrotto e inconciliabile con il cinema, ma che - fermandosi a osservare questi video la cosa appare subito meno sorprendente - può anche visibilmente portare un arricchimento. Il voler ricercare uno stile che si avvicina alla sperimentazione visiva e all’impulsività concettuale dell’arte permette al film di approssimarsi alla materia aliena di cui è composto, e a cui dona il volto e il corpo senza riserve una Scarlet Johansson in versione dark, stranita e taciturna (esatto opposto del ruolo in Her di Spike Jonze, in cui ne viene esaltata solamente l’evocativa suggestione del suo timbro vocale).

Il suo personaggio, a partire da una connaturata inadeguatezza, sfrutta ogni adescamento per acquisire una consapevolezza umana, e femminile, per sperimentare, in definitiva, le potenzialità di quel vestito che indossa, anche e soprattutto, in riferimento a una dimensione psichica e affettiva. Se ogni incontro con l’altro è sempre un abisso, le sfumature simboliche adottate dall’aliena illustrano icasticamente un moto di accettazione e adattamento che, in questa (nostra) realtà, non possono che condurre in un’unica direzione, nella quale l’essere umano tornerà a riaffermarsi per la sua atavica naturale predatoriale.
Visivamente, il nero è il colore dominante: riempie, avvolge, inquadra, crea spazi cupi e claustrofobici, come - tra i più affascinanti - la vasca oscura contenente un liquido denso nel quale vengono immersi gli uomini catturati.
Under the Skin è un cinema che tenta, come capita sempre più raramente, di inventarsi al di là di strutture, immaginari e traiettorie sicure; scegliendo soluzioni di regia anche radicali: spesso la Johansson ha dovuto interagire con un set reale e con macchine da presa nascoste. Questo non lo rende automaticamente perfetto, e anzi, per molti spettatori (come è accaduto alla presentazione veneziana) il risultato apparirà inconcludente, artificioso e presuntuoso. Ma è il giudizio di chi si ferma alla parvenza senza collegare le idee che l’animano. E che qui certo non mancano.

Alessandro Tognolo - gennaio 2014 - pubblicato su MCmagazine 35