Vergine giurata
Laura Bispuri - Italia/Albania/Svizzera/Germania/Kosovo 2015 - 1h 30'

    Nell’estremo nord dell’Albania, ai confini del Kossovo, la condizione della donna nella società è (come da noi in altri tempi e ancora oggi sotto altri cieli) di totale soggezione all’uomo: moglie e serva allo stesso tempo, non può guidare, uscire da sola, lavorare, entrare in un bar, scegliersi autonomamente un marito. Tutto è regolato da un antico codice chiamato Kanun (canone?). L’unica via d’uscita è che la donna, con un solenne atto di fronte alla popolazione maschile del villaggio, dichiari di voler rimanere per sempre illibata, cioè di rinunziare alla sua femminilità, prima di tutto la possibilità di sposarsi e di avere figli. Scelga, cioè, di diventare una Vergine Giurata, la Sworn Virgin del titolo. Assumerà allora una nuova identità maschile, nel nome, nel comportamento e nel vestire, e nessuno potrà più imporle niente: sarà libera appunto come un uomo.
E’ così che Hana, la protagonista del film di Laura Bispuri
Vergine Giurata, unico film italiano in concorso a Berlino, inizia una nuova vita come Mark. Ma gli anni passano, l’identità maschile diventa una prigione insopportabile: il protagonista decide di partire per l’Italia dove, nel frattempo, si è trasferita, o meglio è fuggita, la cugina Lila.
Sarà qui, nel confronto con una realtà più aperta e, soprattutto, con la nipote adolescente Katrina che si svolgerà il suo faticoso cammino di riconquista della femminilità perduta e di riappropriazione di quella parte di sé di cui si era volontariamente mutilata.
Il film è tutto un continuo avanti e indietro tra le strazianti scene della gelida realtà albanese, per altro quelle meno risolte ed efficaci, e l’altrettanto difficile scontro con la pseudo modernità italiana. In maniera forse un po’ didascalica (Hana a bocca aperta davanti a un negozio di lingerie o esterrefatta dall’incontro con le amiche della nipote che, tacchi alti, abiti da sera e rossetti sgargianti, vanno a una festa), la Bispuri ci dà il suo messaggio: anche senza il Kanun le donne sono, in fin dei conti, imbustate, ingabbiate e prigioniere di un’idea di perfezione e bellezza altrettanto assurda. La storia ha un suo esile appeal, il cammino di Mark/Hana per la riconquista della sua identità sarà lungo, i risultati incerti...
Liberamente tratto da un romanzo di Elvira Dones, a suo tempo pubblicato da Feltrinelli, il film ha richiesto due anni di lavoro in loco, con interviste alle donne dei villaggi, le vere burnesha (“donne-uomo”, così sono chiamate). Alba Rohrwacher, dopo Via Castellana Bandiera,
Le meraviglie e Hungry hearts, non smentisce la sua vocazione per questi personaggi complessi: capelli corti, jeans sdruciti, sguardo perso, è estremamente a suo agio in questa incarnazione sofferta e al limite, per noi, della credibilità.
La platea di Berlino, città aperta quante altre mai alle tematiche delle identità sociali e sessuali, non ha lesinato gli applausi. A noi, tutto sommato, è apparso poco riuscito, indefinito, gracile come la sua protagonista. Difficile pensare ad un successo di pubblico in Italia...

Giovanni Martini - febbraio 2015 - pubblicato su MCmagazine 37