Come due coccodrilli
Giacomo Campiotti - Italia 1993 - 1h 40'

Ci son due coccodrilli
ed un orangotango
due piccoli serpenti
e l'aquila reale
il gatto, il topo e l'elefante.
Non manca più nessuno
solo non si vedono... i due liocorni

Come due coccodrilli si può considerare un piccolo caso cinematografico, un'importante battaglia vinta nella guerra della distribuzione italiana. Annunciato da mesi, reduce da numerosi riconoscimenti internazionali il film di Giacomo Campiotti debutta in sordina al Greenwich di Roma, spalleggiato solo dall'incitamento de La Voce, e subito riesce ad entrare in sintonia con il pubblico, trova altre sale in Italia che gli danno fiducia, arriva talvolta a tallonare il successo di Sostiene Pereira, evidenziando, al di là dei risultati al botteghino, il bluff artistico di La scuola e di Viva San Isidro.
La vicenda semplice e sincera che anima il film è quella di uno scontro tra fratellastri, di un rancore cresciuto in anni di tesa convivenza, di un'infanzia scritta, tra perfidie e dolci ricordi, nel cuore del protagonista, Gabriele (Fabrizio Bentivoglio) ora, adulto, antiquario di successo a Parigi. La prima mezz'ora del film è tutta un sogno-flashback che lo tormenta, mentre la sua esistenza scorre tra gli agi di un vivere asettico, protetto dietro la dura scorza di una felicità solo apparente. Scopriremo che Gabriele è un figlio illegittimo rimasto orfano della madre Marta (Valeria Golino) proprio in occasione della nascita del fratello Martino, ma che il padre (Giancarlo Giannini) li ha voluti entrambi nella sua villa sul lago di Como, a convivere con la sua famiglia "ufficiale", con i fratellastri Saverio e Mauro, in un odio-amore insanabilmente sfilacciato: da un'adolescenza consumata tra i dispetti ad una giovinezza straziata da più lancinanti contrasti, fino all'esilio in Francia di Gabriele, al distacco totale da tutti i suoi legami. Come due coccodrilli ben riprende, nel suo evolversi, tutte le sfaccettature psicologiche del dramma familiare, ora con soavità ora con "tamburellante" angoscia e, nel finale, solo abbozza la quadratura del cerchio del suo teorema sentimentale, ricongiungendo i protagonisti in una vendetta incompiuta ed insoddisfacente, nell'ironico congiungersi di due fallimenti, uno economico l'altro esistenziale, che il destino sembra non voler accettare come definitivi.Un racconto che sembra sia riuscito a toccare le corde più intime del pubblico ed uno stile che ha saputo non banalizzare anche le situazioni più sdrucciole dei contrasti familiari. Obiettivi che il trentottenne Campiotti raggiunge con una sceneggiatura calibrata ed una regia discreta, ma soprattutto con una forte convinzione costruttiva di partenza...

ezio leoni 

CONVERSAZIONE CON GIACOMO CAMPIOTTI

"Come due coccodrilli nasce da una precisa riflessione, dal desiderio di raccontare una storia dove non ci fossero buoni e cattivi ma dove ogni personaggio, anche tra quelli che compiono azioni negative, avesse le sue buone ragioni. Questo per la fascinazione che ha su di me un certo tipo di cinema e di letteratura, Cechov soprattutto. Un amico mi ha consigliato di leggere la storia di Giuseppe e i suoi fratelli che è un brano della Bibbia, ma anche del Corano; le due storie sono identiche, anzi nel Corano ci sono i primi due versetti che l'annunciano dicendo - Adesso ti racconto la storia più bella del Corano -. Ho avuto una folgorazione, appena l'ho letto ho capito che era esattamente la storia che cercavo, perché è una storia primitiva: Dio per un attimo è assente, è "sopra"; lascia gli uomini completamente in balia dei loro sentimenti e del loro dolore. Una storia che ha il coraggio di parlare dei sentimenti in maniera diretta e primaria, dell'amore che c'è tra un uomo e una donna, della difficoltà di comunicazione tra un padre e un figlio, del desiderio di tale comunicazione ma dell'impossibilità di trovare le parole, del dolore che crea questo silenzio, dell'amore che c'è tra fratelli, ma di come si può arrivare alla gelosia, la gelosia che porta all'invidia, l'invidia che porta al rancore, il rancore che conduce alla vendetta, la vendetta che, anche se spietata, in realtà nasconde un desiderio di riconciliazione".

Occorre quasi frenare Campiotti nella sua appassionata argomentazione, per ricondurlo, dal momento dell'ispirazione alla concretezza del suo lavoro di scrittura e regia:

" Mi piaceva in questa storia il fatto che ogni sentimento finisce nel suo opposto, senza contrapposizione. Ma, certo, questo è stato solo lo spunto; da qui siamo partiti, io e Adabachan - lo sceneggiatore di Oci ciornie - trasformandolo in un film del tutto contemporaneo, con situazioni e problematiche attuali, anche se la potenza dell'intreccio psicologico tra i personaggi è rimasta uguale".

E contemporaneo, senza niente di biblico, è certamente il titolo Come due coccodrilli. Perché questa scelta?

"La frase ritorna spesso nel film. E' un gioco di parole. Prima la usano la mamma e Gabriele bambino, poi lui da ragazzo e il fratellino. E' una specie di parola d'ordine di questa famiglia nei momenti di difficoltà: si scambiano questa battuta per farsi forza a vicenda. In sceneggiatura cercavamo qualcosa, come un gioco di parole; poi mi è venuta in mente questa filastrocca che tutti conoscono. Il fatto poi che avesse un suo contrappunto gestuale mi sembrava poi molto cinematografico: in tutto il film è molto poco il parlato, si cerca di far parlare le immagini, gli attori con la loro espressività... Inoltre parla del coccodrillo. E' un animale che mi sta molto simpatico, per la sua ambiguità. Anche il film è disseminato di ambiguità: Bentivoglio con questo cappottone che è una specie di scudo, una corazza con cui si difende dal mondo. Il coccodrillo è così, è cattivissimo, ha una corazza dura, tosta, ma poi c'è una lacrima che da qualche parte arriva, probabilmente dal cuore".

Dalla sceneggiatura alla produzione. Non è mai un percorso facile, specialmente per un giovane autore.

"All'inizio ho cercato di occuparmi io stesso della produzione. Ho trovato la RAI, la Francia, l'articolo 28; ma ad un certo punto non ce la facevo più. Volevo pensare al film, non ai soldi, per cui ho deciso di rivolgermi ad un produttore e Procacci mi è sembrato il più adatto. Gli ho portato il pacchetto economico che avevo raggranellato, lui ha accettato. Il fatto è che lui aveva a che fare con altri problemi (legati all'insuccesso de La Bionda di Sergio Rubini - N.d.R.), così ci ha lasciato una totale libertà: da un certo punto di vista si potrebbe dire totale abbandono, ma nel bene e nel male il film è andato perfettamente in porto, anche se ad un certo punto ho dovuto sospenderlo in attesa di nuovi fondi, pur di non rinunciare a portare a termine il progetto come l'avevo pensato. Alla fine è costato poco meno di tre miliardi e la cosa bella è che in questa situazione e con questo budget ho potuto scegliere di lavorare con quei collaboratori con i quali avevo già fatto il primo film, Corsa di primavera - il musicista Stefano Caprioli, Roberto Missiroli al montaggio - e costruirmi attorno l'atmosfera giusta. Sono fiero perché il film è riuscito esattamente come lo volevo".

Merito certo anche del cast: la Golino, una volta tanto, è giusta nel personaggio, Bentivoglio, ormai attore-emblema del miglior nuovo cinema italiano, incarna perfettamente la tenebrosa maturità di Gabriele, Giannini ha l'età e la personalità adatti a Pietro, il padre. Sono interpreti di rango, come sei riuscito ad accaparrarteli, specie Giannini?

Non è stato certo facile. Abbiamo contattato il suo agente ma il nostro budget era molto lontano dai suoi cachet abituali. Ho provato ad insistere, ma l'agente era irremovibile e la produzione mi ha consigliato di cercami un altro attore. Intanto avevo già coinvolto Bentivoglio (e la Golino, sua compagna nella vita - N.d.R.) e allora, una domenica dell'estate scorsa, sono passato in macchina sotto casa sua e l'ho invitato a farsi una passeggiata con me... L'ho portato da Roma a Pisa dove sapevo che Giannini ha una villa: siamo arrivati al cancello e Giannini era lì, in pantaloncini corti che faceva giardinaggio. A quel punto ci ha fatto entrare e ci ha offerto da bere - faceva un gran caldo - e noi gli abbiamo detto il perché della visita e che ci eravamo piazzati lì intenzionati a non andarcene finché non avesse accettato. Ne abbiamo parlato per un paio d'ore: lui la sceneggiatura l'aveva appena scorsa, non molto invogliato dal suo agente. Quando ha detto che ci avrebbe pensato allora abbiamo tolto le tende. E alla fine è andata bene".

Un modo di far casting certamente fuori dal normale. E' un'industriosità che ti è propria o l'hai imparato strada facendo, nel mondo del cinema? Da quanti anni ci sei dentro, come ci sei arrivato?

"Sono arrivato al cinema per caso, non sono uno di quelli che ama l'odore della celluloide fin da bambino, il buio della sala alla Tornatore, mi piaceva molto il cinema, ma non è che a Varese ci fosse molto cinema. Partecipavo ai cineforum, ma dentro di me pensavo allora di fare teatro. Poi un'estate ho conosciuto su una spiaggia (Rimini? forse Riccione) tre disperati che stavano trasportando dei gran pesi. Mi hanno incuriosito e li ho aiutati. Erano tre ragazzi che stavano girando le prove di Banana Republic, la tournée di Dalla-De Gregori: Ottavio Fabbri, ecco è con lui che ho iniziato... Non sapevano ancora se avevano i soldi per fare il film , ma intanto con quella 16 mm stavano girando delle cose: li ho aiutati; non mi sembrava vero... Poi quando il film è partito, questo film-documentario musicale, mi hanno chiamato dicendo che dovevo lavorare con loro, poi da cosa nasce cosa".

E allora parliamo del tuo apprendistato, dei tuoi maestri: Monicelli e Olmi, se non sbaglio?

"Ho iniziato professionalmente con Monicelli: Speriamo che sia femmina e I picari, come aiuto regista, ma prima avevo fatto l'assistente anche nel Marchese del grillo, nell'81. Monicelli è stato un grande maestro: e una di quelle persone che ti permettono di capire quello che fanno. Lavorare con Fellini dev'essere esaltante ma Fellini il film ce l'ha tutto in testa e lo capisci solo quando lo vedi finito, Monicelli invece è un regista che mi ha reso possibile la comprensione di tutti quelli che sono i passaggi della costruzione di un film. Ma è stato anche un maestro di vita oltre che di cinema, l'unico che dice sempre quello che pensa: scorza cinica da toscanaccio, ma una persona davvero eccezionale.
Eppure, io che uscivo dai cineforum, ero attirato da un’idea molto più artigianale di cinema. Per cui per prima cosa avevo scritto una lettera ad Olmi, a lui che si costruisce i suoi film dalla prima parola della sceneggiatura, fino a seguirne le musiche, il missaggio, tutto. Così, nell’82, sono arrivato a Bassano.
Ipotesi Cinema più che una scuola era un laboratorio. Era l’inizio: c’erano Zaccaro, l’Archibugi... Ho proposto i miei lavori e sono stati accettati. Mi è servita forse più quell’esperienza che tutti gli anni di aiuto regia. Ho fatto tre lavori.
Il primo,
Tre donne, è la storia di tre donne che raccontano la loro storia d’amore: una vecchia di ottant’anni, una signara di cinquanta e una ragazza di venticinque. Attraverso le loro storie d’amore escono tre epoche diverse, tre mondi, tre realtà molto diverse. La prima racconta la prima guerra mondaile: questa donna che è stata soprattutto una moglie e parla solo del suo uomo, colonello dei carabinieri che lei ha amato per tutta la vita. Il destino li ha separati per vent’anni, poi si sono ritrovati… La seconda è una donna di cinquant’anni chè è una moglie ma che inizia ad essere anche una madre. Parla dei figli, del boom economico alla fine della guerra, quando sembrava che l’Italia dovesse diventare un mondo nuovo. Poi invece arriveranno la delusione degli anni 60 e 70, la politica, l’impegno, i figli, il ritrovarsi alla fine solo moglie accanto al suo uomo…La terza è una ragazza che cerca la sua realizzazione personale più che un uomo, fa l’ostetrica... Alla fine c’è una sorpresa: si vedono queste tre donne insieme e si capisce che sono una nonna, una madre e una figlia... In realtà sono proprio mia nonna, mia madre e mia sorella. Mi piaceva questa continuità che lega tre mondi solo apparentemente diversi…E il film è piaciuto anche all'estero: Tre donne è andato alla Sorbona, io sono stato invitato a Parigi, a Rotterdam ...
Poi ho fatto
La Bomba, passato moltissimo in televisione: è un’inchiesta, fatta in video e realizzata sull’ipotesi che la bomba fosse scoppiata per cui c’è tutta la gente che parla al passato, come se fosse morta e raccontasse chi era. Per me è stato molto interessante anche dal punto di vista del linguaggio, anticipava esperienze come Video box e simili. Mi sono fatto fare una lettera falsa della RAI che diceva che io ero un regista dell’UNESCO che stava realizzando la parte italiana di questa videocasetta. Erano gli anni dei missili Pershing e Cruise a Comiso, si parlava di guerra nucleare limitata. Era l’apice della guerra fredda, ma qui si parlava di guerra nucleare possibile, per cui ho chiamato un 150 persone che andavano dall’uomo della strada ai bambini, ai vecchietti ad Andreotti, a un americano "pentito" che aveva partecipato proprio alla costruzione della bomba… Sono venuti tutti a parlare in un piccolo studio sotterraneo, in una specie di bunker antinucleare e io dicevo che stavo realizzando questo filmato che nessuno avrebbe visto, una specie di testamento spirituale dell’umanità che sarebbe stato messo nel bunker antiatomico e lasciato come testimonianza per chi sarebbe arrivato dopo di noi: marziani vari oppure sopravvissuti. Per cui tutta la gente era molto toccata, non faceva il solito discorsetto televisivo e parlava della propria vita al passato, non facendo finta di esser morto ma come rivolgendosi a che ti guarderà… In realtà era una provocazione: rispondevano tutti allo stesso tipo di domande, poi nel montaggio erano messi vicini gente di potere. Un lavoro molto emozionante.
Infine un corto di fiction,
Ritorno dal cinema, nel 1987, su un soggetto di dieci righe regalatomi da Zavattini (ho fatto in tempo a conoscerlo!). Era un soggetto di 10 righe ed io ne ho fatto un film di 10 minuti con Enrica Maria Modugno e Claudio Botosso. Era incentrato sul mito del cinema e sulla necessità che abbiamo poi di distruggerlo per vivere senza frustrazioni. I due erano una coppia di innamorati che andavano a vedere Cotton Club, in cui c’era Richard Gere, bello più che mai. A lei piace moltissimo… Poi arrivati a casa, si confrontavano da persone normali, si "risceglievano" l'un l'altro.
È grazie a questi cortometraggi che io sono arrivato a far cinema".

L'esordio è stato nel 1989 al Festival di Venezia. Presentasti alla "Settimana della Critica" Corsa di primavera. Fu un buon inizio se ben ricordo.

"Corsa di primavera è proprio un'opera prima con tutti i pregi e difetti del genere: fortemente autobiografica, nasceva non tanto dalla necessità di raccontare la propria storia, ma dal fatto che in quella mia esperienza di bambino mi sembrava si potessero rispecchiare un po' tutti. Ha avuto buone critiche, ha vinto al festival di Giffoni... Purtroppo non ha avuto una distribuzione adeguata, ma ugualmente vanta una sua intensa circuitazione; tuttora il film è in circolazione nei cinema d'essai, nei cineforum, nelle proiezioni per le scuole. Allora uscì in un periodo sbagliato, a settembre, a ridosso del Festival di Venezia, convinti che quell'eco bastasse. Invece, anche se i giornali facevano cinque-sei pagine dal Lido, era un periodo in cui la gente non aveva proprio voglia di andare al cinema...
Così sono seguiti anni non facili e progetti non realizzati. Ho scritto una storia con Lucio Dalla che doveva interpretare lui stesso con Abatantuono, anche quella una storia di due fratelli. Lì mi son fatto fregare da beghe produttive tra Di Clemente, il mio primo produttore, e Cecchi Gori. In seguito, ancora con Cecchi Gori, dovevo fare
Io speriamo che me la cavo: era una grande occasione; ho lavorato per due, tre mesi, ho fatto un po' di sceneggiatura; poi ho capito che non ero libero di lavorare come volevo. Tra l'altro la produzione era affidata a Ciro Ippolito che si trovava in carcere per problemi di cocaina... Non dico altro".

Torniamo allora a Come due coccodrilli. Tutte le esperienze precedenti sfociano in un film che non è solo soggetto, sceneggiatura, casting ma che, si nota, è molto curato anche nella costruzione stilistica: i ritmi, il rapporto immagini-dialoghi, la fotografia.

"La fotografia è un particolare importante, è fortemente finalizzata alla struttura narrativa. Il film si svolge in tre epoche diverse gli anni sessanta, gli anni settanta e oggi. La mia memoria degli anni 60 è una memoria in bianco e nero, la televisione era in bianco e nero, i giornali, anche i settimanali, erano in bianco e nero e così pure i super8 familiari. Per gli anni 70 abbiamo scelto questa colorazione che era un po' quella del primo technicolor, leggermente desaturata ma con una pellicola che, quando trova delle macchie di colore, reagisce con una grande intensità cromatica. Per il periodo di oggi, infine, una fotografia più fredda che mi sembrava anche adatta a rappresentare l'ambiente, la situazione psicologica del nostro personaggio. E' stata una scelta estetica ed anche di lettura. Per quanto riguarda il ritmo ed il peso dei dialoghi ho cercato di lasciare molte situazioni abbozzate: talvolta ci sono solo gli elementi che rendono possibile la comprensione, per il resto lo spettatore se li immagina come vuole. Posso dire che Come due coccodrilli è dedicato ad un pubblico disposto ad una partecipazione attiva. Lavorare oggi in televisione è allucinante perché ti chiedono in continuazione di mettere degli "spieghini": il telespettatore deve sempre capire, anche se va cinque minuti a telefonare o al bagno. Trattano lo spettatore come un deficiente. Io invece gli chiedo sempre attenzione: all'inizio, ad esempio, deve stare particolarmente attento per ricostruire la complessità della vicenda, ma mi è piaciuto pensare di lasciare proprio allo spettatore il compito di unire le varie parti, per scoprire il vero legame della storia".

Ma anche il finale lascia una porta aperta all'interpretazione dello spettatore: un'indecisione, una scelta a priori, un taglio registico non accomodante?

"Non volevo un lieto fine catartico, mi sembrava più interessante non chiudere del tutto il film, come una specie di teorema . Volevo lasciare allo spettatore forse anche un po' di scontentezza, ma qualcosa che lo facesse lavorare dentro. Io credo che i rapporti umani, i rapporti interpersonali vadano conquistati. Mi piace di più pensare che il personaggio, compiuta questa specie di vendetta, soddisfatto questo desiderio che ha covato così a lungo, si rende conto che in fondo la sua vita è un deserto, che sarebbe troppo facile chiedere scusa e abbracciare tutti come se niente fosse... Sono convinto che, come lui dice, tornerà, ma mi piace l'idea che debba rimboccarsi le maniche e rimettere prima ordine nella propria vita. Poi ritornare da vero fratello".

e.l. - incontro con G.Campiotti al LUX: 12/4/95