Ringraziamo i relatori e quelle persone che con la loro generosa disponibilità hanno consentito la realizzazione di questa giornata in ricordo di François Truffaut nell’anno in cui avrebbe compiuti gli ottanta (1932-1984). È per noi e speriamo anche per gli spettatori, motivo di gioia il poter avvicinarsi, in una specie di “Camera Verde”, ad un regista ed un uomo che ha saputo regalarci così tante emozioni. Restiamo del parere che, in una fase di amnesia diffusa, qualcuno si debba occupare del ricordo. Ci è parso poi appropriato programmare quella che, a ragione, viene considerata una forma di autobiografia visiva. Antoine Doinel – Jean-Pierre Léaud, è il personaggio che il regista insegue nella sua reale crescita anagrafica, dai 14 anni de I quattrocento colpi (1959) ai 34 di L’amour en fruite (1978). Operazione praticamente unica nella storia del cinema. Antoine Doinel, invecchia ma non cresce, proprio in quella accezione per cui Schiller e Nietzsche individueranno l’uomo come tale, solo nella dimensione del gioco. Lo stesso Truffaut: “Mentirei se dicessi che Antoine è riuscito a trasformarsi in un adulto”. Il suo cinema è frequentemente attraversato da maschietti giocattolosi che si aggirano fra mestieri improbabili e amori in fuga o in tragedia, che poi è lo stesso. Quando si parla di autobiografia, non è tanto o solo perché il regista lo lascia intendere attraverso le interviste, ma perché è la scelta più in generale della regia “alla Truffaut” a dimostrare ampiamente il tentativo di prolungare li gioco dei rimandi personali. Il cinema come non-mestiere, il cinema per rendere la vita più sopportabile, per confonderla, per meticciarla fra l’uno e l’altra. Per Truffaut, fare film vuol dire allontanare l’analista e nel contempo curare anche noi che li guardiamo. Un bel giorno sbotterà: “Ma chi, è adulto?” Ci è capitato di leggere su un giovane regista, avviato alla notorietà e che ora non ricordiamo chi fosse. Non importa, ci è rimasto impresso invece il racconto di un suo rientro a casa dove, con entusiasmo, annuncia di aver vinto un concorso per la regia di un mediometraggio e da lì la scelta di fare il regista. Il padre lo guarda e dice: “Bene sono contento per te, ma spero che prima o poi ti troverai anche un lavoro”. Ci piace immaginare che avrebbe divertito Truffaut.
Come nasce la scelta di una programmazione senza stacco che impegna per l’intera giornata? L’idea non è nostra, ma ci piace imitarla. Se vi capitasse di leggere Le avventure di Antoine Doinel dello stesso Truffaut, nei saggi della Marsilio per la preziosa collana Cinema a cura di Lino Miccichè e Giorgio Tinazzi, vi troverete un brano dell’intervista realizzata da Simon Mizzaghi. Ve lo riportiamo fedelmente.
“Tempo fa credevo veramente di aver chiuso con Doinel dopo Domicile Conjugal (Non drammatizziamo... è solo questione di corna), ma un giorno Henning Carlsen, che ha fatto un film molto bello, Sult (Fame), mi ha raccontato una cosa davvero interessante. In Danimarca i cinema vengono “affidati” un po’ come le rivendite dei tabacchi in Francia. Henning Carlsen ha gestito il cinema che aveva Carl Dreyer fino alla sua morte, il Dagmar Theater a Copenhagen. Là, Carlsen ha intrapreso l’esperienza che segue. Ha proiettato tutti i film Doinel in forma di ciclo. Alle due e mezza del pomeriggio I quattrocento colpi, alle quattro e mezza L’amore a vent’anni, alle sei Baci rubati e alle otto Domicilio coniugale. E li c’erano dei giovani che guardavano tutto il giorno Antoine Doinel crescere, amare e invecchiare. Quando mi ha raccontato questo mi è venuta voglia di fare un ultimo “Doinel” che sarebbe L’amour en fruite.”
Il cinema con frequenza rimanda al cinema: in questi giorni è nelle sale il documentario The story of Film di Mark Cousins. In uno dei primi episodi, alcune sequenze inquadrano per l’appunto il Dagmar di Copenhagen a proposito della lunga gestione Dreyer. Erano tempi in cui un monumento al cinema come lui, doveva gestire ma solo per la pagnotta; la regia non bastava. Allora abbiamo pensato che il Lux di Ezio Leoni, non è certo il Dagmar di Dreyer e di Carlsen, ma che potevamo fare la stessa cosa perché l’amore per il cinema e per Doinel è lo stesso.
Jean-Pierre Léaud, durante la sua carriera, ovviamente ha lavorato con altri registi, ma la morte prematura di Truffaut, nel complesso gioco delle parti, inevitabilmente lo porta ad uno stato di depressione; ricordiamo la fatica per risollevarsi. Il finlandese Aki Kaurismäki, estimatore del cinema di Truffaut e che giustamente ritiene l’attore di altissima qualità, nel 1990 lo chiama per Ho affittato un killer. È un impiegato che dopo molti anni di lavoro viene licenziato, deluso dalla vita e che dopo alcuni tentativi di suicidio, assolda un sicario a pagamento. Ma si innamora e gli torna la voglia di vivere; magari fosse così semplice. Non gli riesce di disdire il contratto e scappa. Siamo in quelle raffinatezze ad altra ironia a cui ci ha abituati Kaurismäki. Léaud è nella parte e forse gli sarà sembrato di navigare in un film di Truffaut. Chi ha visto l’ultimo lavoro di questo regista, Miracolo a Le Havre, lo ricorderà di tal buonismo da sospettare una inversione ironica. C’è una scena chiave e non solo per la cinefilia: Jean-Pierre Léaud, che oggi ha 66 anni, ha una piccolissima parte, dove nel mezzo di tanto altruismo, lui, in pratica è l’unica carogna. Kaurismäki in una intervista dirà: “Ne I quattrocento colpi faceva il ragazzino che sfugge all’autorità, nel mio film denuncia il ragazzino all’autorità; è il delatore col telefonino.” Anche per questo, siamo propensi a pensare che il film possa essere letto all’incontrario.
Per concludere, una amica, ogni qual volta rivede I quattrocento colpi, alla fine, quando il protagonista dopo la lunga corsa liberatoria arriva al mare e la cinepresa gli si avvicina sempre più per immobilizzare l’immagine, si commuove. Le auguriamo che la cosa si ripeta anche oggi.

Franco Pavanello
Enoch Battagin