(luglio) agosto- settembre
ottobre
2009

trimestrale di cinema, cultura e altro... ©

n° 27
Reg.1757 (PD 20/08/01)

.pag. 3
 

  Magia! Richiamando Bagdad Café, un ormai vecchio film di Percy Adlon del 1987, In-Finitum, a Palazzo Fortuny di Venezia fino al 15 novembre prossimo, è una ….. magia!  Quando l’arte diventa tutt’uno con lo spazio, quando la Storia e il “prodotto” artistico dell’uomo fanno sì che si ri-torni ad andare d’accordo con la vita, non può essere altro che magia...
Il perdersi dello spettatore nell’esposizione veneziana, l’essere “risucchiato” fisicamente, emotivamente, psichicamente (ricordate  Poltergeist?) da regali “gatti” egiziani che conversano con loro simili anni ’50, da grandi “biglie” ferite e squarciate (
Concetto Spaziale Natura di Lucio Fontana) che si contrappongono all’installazione Sea of Time di Tatsuo Miyajima (2009) dove numeri, numeri e numeri appaiono e scompaiono in continue e fluide micro-onde, da capolavori come Fine di Dio (ancora di Fontana) che interagisce in un silenzioso colloquio con due opere di Ad Reinhardt dove il nero è assoluto protagonista, è più di un’occasione rara: è un’esperienza che accresce e nutre, riappacificando.

Corrono in “aiuto” a tutto ciò, amplificando le sensazioni, sollecitando tutti i cinque sensi, uno spazio spesso in penombra, dove la scoperta delle immagini avviene poco a poco, lentamente fin quasi a far percepire il dilatarsi della propria pupilla per adattarsi alla situazione e la ricerca, fondamentalmente infruttuosa, di didascalie che aprirebbero alla conoscenza dell’oggetto che si ha di fronte (per comprendere cosa effettivamente si sta contemplando è necessario utilizzare una brochure che viene consegnata all’inizio del percorso).
Non è possibile, in aggiunta, non soffermarsi sull’aspetto ludico, su quello avventuroso, sul fascino e la paura della “scoperta” che l’esposizione permette di vivere: dal Piano terra, che improvvisamente si apre su piccoli spazi aperti dove giorno dopo giorno la natura si impossessa dell’arte (Erik Dhont
Form Meets Nature) su su fino al Sottotetto, è tutto un susseguirsi di emozioni.
Già a partire dal titolo della Mostra,
In-Finitum, il sipario si spalanca su concetti (come l’ “eternità”) da cui tutti, fin da bambini, siamo attratti, inquietati, incuriositi, spaventati.

Un incredibile “fil rouge”, costituito non solo di contorni non definiti, di particolari non dettagliati, di colori sfumati, di elementi compositivi e formali che potrebbero susseguirsi continuamente, accomuna tutte le opere di epoche tra loro lontanissime, di materiali diversissimi, di “natura” opposta.
Che dire delle piccole opere “non-finite” di Mariano Fortuny y Marsal, nelle quali sicure pennellate “informali” ad una più attenta osservazione divengono uomini, galli, oggetti, che vivono nello stesso ambiente con ipnotiche video-installazioni dove figure maschili e femminili sono radiografate per essere ricondotte a nere silhouette? O ancora, guadagnando lo spazio dell’Attico, che dire di ambientazioni labirintiche dove spazi “leggeri, ma claustrofobici” portano il viaggiatore di fronte a tesori quali
La Vie sans l’homme di Jean Dubuffet ?
Un’esposizione insomma che, lo ribadiamo, rincuora, accresce, infonde fiducia, riportandoci a credere in un “uomo” in grado di produrre “il Bello”.

Considerazioni analoghe sono in parte possibili relativamente all’Arsenale, ormai consolidata sede espositiva della Biennale.
Anche in
Fare mondi il “contenitore” e il “contenuto” si amalgamano e si compenetrano in maniera sorprendente; in più lo spettatore alterna l’ ”entrare” e l’ ”uscire”, l’ ”esplodere” e l’ ”implodere” grazie agli edifici e agli spazi che l’intero complesso dell’Arsenale offre: dalle Corderie alle Gaggiandre, dalle Tese al Giardino delle Vergini.



E la “sorpresa” è, come sempre per la Biennale, la vera protagonista della visita: il fruire dell’opera d’arte, il “sentirla” addosso come una seconda pelle, l’entrare in sintonia, o meno, con essa è il caleiodoscopio di sensazioni che Esposizioni simili generano.
Passeggiare per il Giardino delle Vergini tra “verzura” che diventa opera d’arte, tra piccoli edifici fatiscenti che diventano scrigni dal contenuto prezioso, tra monumentali e storiche sculture (l'omaggio a Pietro Cascella) è… letteralmente salvifico.
Ma non è proprio l’Arte l’unica possibilità per salvarsi?

Massimo Magagnin