Morte a Sarajevo (Mort à Sarajevo - Smrt u Sarajevu)
Denis Tanovic - Francia/Bosnia 2016 - 1h 48’

BERLINO 66 - Orso d'argento/Premio speciale della giuria

    Va al bosniaco Morte a Sarajevo l'Orso d'Argento premio speciale della Giuria. L'autore è quel Denis Tanovic già venuto alla ribalta anni fa con un Premio Oscar al miglior film straniero per il suo No man's land sulla tragedia degli anni '90 in Jugoslavia.
Qui siamo appunto nella capitale bosniaca Sarajevo. È il 28 giugno 2014, centesimo anniversario dell'assassinio da parte del giovane nazionalista Gavrilo Princip, dell'erede al trono d'Austria e Ungheria arciduca Francesco Ferdinando e della moglie, episodio che, per opinione consolidata degli storici, è l'elemento scatenante della Prima Guerra Mondiale e di tutto quello che verrà dopo.
Il film è liberamente ispirato ad una piece teatrale di Bernard Henry Levy, portata effettivamente in scena a Sarajevo in quella data da Jaques Weber, e che il regista amplia fino ad includere un vasto ventaglio di personaggi e situazioni raffiguranti la storia e l'anima bosniaca.
Tutto si svolge in un simbolico Hotel Europa, nella realtà l'hotel Holiday Inn di Sarajevo, eretto in occasione delle Olimpiadi dell'84 e ridotto ad uno scheletro durante il terribile assedio degli anni '90. Ora, perfettamente restaurato, si accinge ad accogliere un meeting di studio e di commemorazione della storica data, a cui saranno presenti alte personalità dell'Unione Europea. Ma dietro alla facciata nulla funziona, l'albergo è pieno di debiti e prossimo al fallimento. Il direttore Omer, desideroso di fare bella figura di fronte alle telecamere di tutto il mondo, deve affrontare la rivolta dei dipendenti da mesi senza stipendio e che hanno deciso di scioperare approfittando dell'occasione mediatica.

Lamia, la bella capo receptionist, cerca di mediare tra le parti, ma le cose precipitano. Il capo degli scioperanti è sequestrato e picchiato nel sotterraneo-night club dell'hotel da una banda di mafiosi al servizio della direzione. Nel frattempo, con una telecamera nascosta e con la scusa di proteggerlo, un altro losco figuro, evidentemente anche lui al servizio del direttore, spia e registra l'attore francese (chiara metafora dell'intellighenzia europea) che nella sua suite si prepara ad entrare in scena.

Morte a Sarajevo è un film in verticale, claustrofobico. I lunghi piani sequenza nei corridoi, nelle cucine, negli ascensori, sono simbolici dei vari livelli psicologici e sociali della realtà bosniaca, dalle cantine dove il crimine è perpetrato, alla terrazza panoramica sulla città, dove forse si respira e si cerca di capire confrontandosi. Qui Vedrana, la giornalista, interroga le varie personalità del prossimo meeting: storici, esperti, personaggi politici. Le domande non risposte, inevase, sono sempre le stesse: è la società bosniaca impenetrabile al confronto e alla "sopportazione" tra le culture? Perché la violenza? Perché proprio lì? Perché sempre lì da un secolo? Vedrana cerca di capire, di creare un dibattito.
È senz'altro questa la parte migliore del film, che culmina nell'incontro-scontro tra la giornalista e un giovane estremista che, incredibilmente, si chiama come l'anarchico di un secolo prima – Yes, my name is Gavrilo Princips – e per cui il suo omonimo era un eroe, non un assassino (opinione peraltro comune nella ex-Jugoslavia).
La giornalista con lui rievoca la storia di Sarajevo negli anni '90 fino al sanguinoso assedio e alla strage di Srebenica. Con Vedrana, che arriva a chiedergli: Tu, G. P., chi uccideresti oggi, uno dei politici che stanno arrivando o un leader nazionalista? E lui che risponde nichilisticamente: Nessuno dei due, tanto non servirebbe a niente, non è mai servito a niente.
Bello l'intento di Tanovic di darci un ritratto variegato e sincero del dramma irrisolto e delle prospettive del suo Paese, ma l'obiettivo è solo parzialmente raggiunto. Film corale, ben diretto e ben recitato (in tanti hanno fatto un paragone con Nashville di
Altman o addirittura con lo storico Grand Hotel), ma forse, Morte a Sarajevo, rispetto ai modelli di cui sopra, non riesce a raggiungere una coesione interna stringente, rimane un po' una serie di episodi senza una conclusione drammatica.
Ci sarà, alla fine, un colpo di pistola, senza vittime né colpevole. Così è, e sarà sempre, la Bosnia?

Giovanni Martini - febbraio 2016 - pubblicato su MCmagazine 39