La paura mangia l'anima [Tutti gli altri si chiamano Alì] (Angst essen Seele auf)
Rainer Werner Fassbinder – RFT 1973 - 1h 33'

CANNES 1974: Premio Speciale della Giuria

  Ci troviamo a Monaco nei primi anni settanta del secolo scorso. Ali è un giovane operaio marocchino che come molti si è trasferito in Germania per lavoro. In un bar dove è solito ritrovarsi coi colleghi conosce per caso un’ attempata signora tedesca. I due iniziano a vedersi spinti da una comune solitudine, e prende corpo così un rapporto che si intreccia con le loro vite. In seguito a una serie di circostanze si sposano ma la convivenza non è semplice per l’opposizione della famiglia e dell’ambiente in cui vivono.
Le coppie di etnie differenti non vengono ancora viste di buon occhio e molteplici sono le difficoltà da superare. A un certo punto le cose sembrano cambiare quando la gente pare accettare questa loro scelta ; però ora è il loro male di vivere ad emergere; Ali si chiude in sé, frequenta un’altra donna, e comincia a condurre una vita sregolata. Ma il suo cuore appartiene ormai alla moglie e sarà questo trambusto emotivo a riunirli nel finale in ospedale per l’ulcera da stress di Ali, di nuovo insieme vicini in una realtà che li consuma...
L’angoscia che si respira fin dall’inizio può dirsi la vera protagonista del film. Le immagini, come spesso accade nei lavori di Fassbinder, parlano da sole e fanno da cornice all’azione dei protagonisti e ci comunicano significati oltre che sensazioni. Ben studiati sono i rapporti tra i vali elementi della storia che si sovrappongono, e si completano. Fassbinder è stato paragonato a Pasolini è si può affermare con certezza che ne ha ben assimilato la lezione nella fissità di alcuni primi piani che ci riportano alla storia dell’arte. A una attenta analisi possiamo constatare che tutto è funzionale ad aprire un varco sulla nostra interiorità e a farci porre dei quesiti importanti e a volte imbarazzanti.

Lorenzo Magnabosco - unicinema.org

 

Nell'intento di abbandonare lo strumentalismo delle occasioni narrative e la predeterminazione della messa in scena, Fassbinder è aiutato dalla rilettura di alcuni film di Douglas Sirk, grande costruttore di melodrammi immigrato a Hollywood dalla Germania. A lui il regista dedica un saggio dal titolo significativo Imitation of Life, che si richiama a un'opera di Sirk del '59 (in Italia: Lo specchio della vita). Lo stesso La paura mangia l'anima è un dichiarato "omaggio a...", rifacendosi per il contenuto a All That Heaven Allows (Secondo amore, 1956). Fassbinder pare imporsi in questo caso soprattutto la filosofia di un motto sirkiano: "Non si può far dei film sulle cose. Si possono soltanto fare film con delle cose, delle persone, della luce, dei fiori, degli specchi, del sangue...". Come dire che l'attenzione deve spostarsi da un approccio "esterno" alla messa in scena, resa funzionale rispetto a un certo "dire" (questo l'effetto prodotto dai raggelati kammerspiel del primo Fassbinder) a un lavoro dentro di essa, teso a sviluppare tutte le possibilità dell'"esprimere", a creare certi diapason che risuonano da un episodio all'altro, certe focalizzazioni del personaggio, che debordano rispetto all'intenzionalità narrativa: la messa in scena è strutturata dalle connessioni interne, è luogo di interazioni più che di azioni.
Tale acquisizione diventerà definitiva per Fassbinder; verrà anzi estremizzata al punto che i suoi ultimi film si possono ritenere di pura messa in scena, costruiti a partire da stereotipi d'epoca con un'ironia che si esercita sul gioco, reso consapevole, dell' orchestrazione. Ne
La paura mangia l'anima siamo ancora nel territorio di mezzo del melodramma, fra accentuazioni di struttura e modi di rappresentazione naturalistici. Il dato nuovo è comunque l'eliminazione di ogni esteriorità drammatica o gesto esemplare - al limite brechtiano - e un turgore diffuso in tutto il racconto, quasi che la morte di Emmi, che già era stata esclusa come atto concluso nel progetto del film, si riverberasse ora, echeggiata e struggente, in tanti scorci del quotidiano e del sociale: nell'arredamento kitch della casa di lei che vorrebbe simulare un decoro borghese, nella sua adesione ingenua e atrocemente incosciente agli stereotipi di una sottocultura ("In questo ristorante ci veniva Hitler. Sai chi è Hitler?", chiede ad Alì con una punta di orgoglio), nel suo sforzo di darsi un piglio giovanile, subito raggelato dallo sguardo di compatimento di qualcuno, nel breve gesto di ribellione all'accerchiamento della gente, soffocato nel pianto della vittima impotente.
L'intensità di Brigitte Mira, che Fassbinder reimpiegherà nel ruolo principale di Mamma Küster e, per una breve apparizione, ne
Il diritto del più forte, sta tutta nella sua impossibilità fisica di figurare come protagonista di una storia romantica; ciò che le fa incarnare la poesia della goffaggine nei timorosi abbandoni ai sentimento e negli slanci sempre a metà fra il disarmato e il protettivo-materno. Il momento più forte de La paura mangia l'anima è forse quello in cui Emmi, momentaneamente abbandonata da Alì, si lascia andare a un'accorata dichiarazione d'amore al giovane marocchino nello sporco di un'autorimessa davanti ai suoi compagni di lavoro tedeschi...

Ludovico Stefanoni - Cineforum

promo

Un'anziana donna delle pulizie, vedova, sposa un immigrato marocchino, di vent'anni più giovane. Doppio scandalo... Non è soltanto un film sul razzismo quotidiano e sulla normalità, ma anche sull'amore e la felicità. Premio speciale della giuria al Festival di Cannes del '74.

LUX - 26 maggio 2009

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