ottobre 2002

bimestrale di cinema, cultura e altro...

n° 4
Reg.1757 (PD 20/08/01)

 

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Debito di sangue (Blood Work)
Clint Eastwood - USA 2002 - 1h 50'


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McCaleb (Clint Eastwood), ex agente dell’FBI in pensione perché colpito da infarto durante l’inseguimento di un serial killer, viene convinto da una donna sconosciuta (Wanda De Jesus) a riprendere le indagini. Contro il parere della sua cardiologa (Anjelica Huston) e con l’aiuto di un vicino di barca (Jeff Daniels) McCaleb mette a rischio la propria vita per rintracciare l’omicida che lo ha costretto ad occuparsi personalmente del caso...
Sappiamo che nella fabbrica americana di best seller spesso i romanzi sono scritti come sceneggiature in vista della prossima trasposizione sul grande schermo e che spesso addirittura i personaggi prefigurano nei tratti fisici e comportamentali qualche grande divo del momento. Non possiamo sapere se Michael Connelly, quando ha scritto il suo romanzo Debito di sangue, avesse in mente Clint Eastwood, certo è che il film che quest’ultimo ne ha tratto riesce ad essere un condensato di tutti quegli elementi del personaggio-Clint e dei suoi film precedenti che ce lo hanno fatto amare.
“Cosa c’è di classico di questi tempi, McCaleb?” gli chiede qualcuno nel film. “C’è Clint” risponde in coro la sala alla proiezione! Di classico c’è anche la storia del poliziotto ossessionato dalla giustizia che si mette alla ricerca di un killer che lo sfida personalmente e che vuole a tutti i costi che sia lui a dargli la caccia. Di classico c’è il tono crepuscolare da noir conferito alla storia dal fatto che il poliziotto non sia più giovane, ma anzi sia reduce da un infarto con relativo trapianto di cuore.
Di classico c’è il modo in cui Eastwood, regista oltre che interprete, ci racconta i fatti. Di classico c’è in questo film tutto il repertorio dei film precedenti interpretati o diretti da Clint.
Se Dirty Harry Callahan ha fatto rivivere il genere noir dopo decenni di silenzio rilanciando la mitologia del giustiziere che porta nella metropoli il western, attraverso la sua rilettura in chiave anni settanta dell’eroe individualista solitario e indisciplinato, qui Callahan alias McCaleb esibisce la fragilità del personaggio non solo nei tratti fisici invecchiati ma soprattutto nella cicatrice sul petto (e nel cuore) che diventa una sorta di emblema della sua vulnerabilità.
Anche lo stesso dinamismo del personaggio, che, pur affaticato dai suoi problemi cardiaci, si muove ininterrottamente per tutto l'arco del film all’inseguimento dell’assassino (senza controfigure come Clint orgogliosamente rivendica), rientra nell’esigenza di ricondurre l’eroe ad una dimensione primaria, enfatizzato nei suoi aspetti corporei, secondo la tradizione non solo del noir ma anche del western.
Il lavoro di Eastwood-regista
film successivo in archivio non opera attraverso citazioni o fratture nei confronti del classico, ma cerca di rinnovare dall’interno quel sistema di segni. E se il finale adombra una possibilità di risvolto sentimentale con la giovane donna che lo ha spinto a cercare l’assassino della sorella, è il fallimento del rapporto con l’amico che mantiene la vicenda all’interno di quell’atmosfera malinconica che caratterizza il genere. L’amicizia ha sempre una parte importante nei film di Eastwood giocati sul rapporto tra il personaggio apparentemente tutto d’un pezzo del protagonista con comprimari fragili, deboli o emarginate. Chi non ricorda l’adolescente hippy di Breezy, la giovane prostituta (Sondra Locke) di The Gauntlet (L’uomo nel mirino), il nipotino di Red in Honkytonk Man, e soprattutto l’indimenticabile Caribù (Jeff Bridges) compagno di avventura di Eastwood in Una calibro 20 per lo specialista (Michael Cimino 1974).
E sembra proprio Caribù resuscitato (quel Caribù per la cui morte silenziosa nella macchina guidata da Clint tutti ci siamo commossi) il personaggio del vicino di barca Buddy Noone (Jeff Daniels), ex surfista, indolente e sgangherato dal quale McCaleb si fa aiutare nelle indagini perché da solo non può guidare la macchina. Che con questo capovolgimento di ruoli Clint abbia voluto ammiccare allo spettatore, preannunciandogli proprio la soluzione finale del film?
Blood Work è diretto e interpretato con quella laconicità di taglio e secchezza di scatti che hanno ormai consacrato Eastwood come un classico del cinema di Hollywood, degno erede di Hawks, Mann, Ford, Siegel, autori cui egli stesso riconosce di essere debitore. Passato indenne attraverso le sperimentazioni d’autore degli anni settanta e le poetiche postmoderne successive Clint si è mantenuto fedele alla sua idea di cinema: un cinema che deve essenzialmente raccontare delle storie, senza caricare le tinte, senza esagerare, preferendo togliere anziché aggiungere.

Cristina Menegolli

V.O.S. novembre-dicembre 2002
 

Piccoli affari sporchi (Dirty Pretty Things)
Stephen Frears - Gran Bretagna 2002 - 1h 38'


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Se ci si aspetta da questo film un’indagine sulla condizione degli immigrati a Londra e magari un’ipotesi di soluzione dei problemi ad essa connessi (come qualcuno in conferenza stampa a Venezia ha auspicato) non si può che rimanere delusi. Se invece ci si avvicina a questo Dirty Pretty Things, opera ultima del regista inglese film precedente in archivio Stephen Frears film successivo in archivio, come ad un thriller un po’ anomalo, si rimane colpiti dalla condizione del protagonista e dei suoi “aiutanti” e dalla rappresentazione del mondo in cui essi vivono.
Okwe (Chiwetel Ejiofor) è un immigrato nigeriano che vive a Londra, e arrotonda quel che guadagna di giorno come autista di taxi e lavorando come portiere di notte in un hotel. Ha un letto in subaffitto presso una giovane e ritrosa ragazza turca, Senay (Audrey Tautou), che fa la donna delle pulizie nello stesso albergo, pur non avendo un permesso di lavoro. Una notte Okwe fa una macabra scoperta in una stanza dell’hotel: cercare di comprendere cosa sia accaduto e ancora accada in quella stanza lo porta a invischiarsi in una situazione apparentemente senza via d’uscita, costretto a essere o vittima o carnefice. In pericolo è soprattutto chi gli è più vicino: Okwe ha molte risorse, ma queste possono rivelarsi per lui un’arma a doppio taglio…
Si deve già alla sceneggiatura la capacità di costruire il percorso di scoperta e la ricerca di salvezza del protagonista attraverso due spazi contrapposti: da un lato lo spazio aperto delle strade, dei mercati, della comunità, dove brulica la vita, dove ci si arrangia e spesso ci si aiuta; dall’altro lo spazio chiuso, in primo luogo quello dell’hotel, metafora di una società che nasconde in luoghi invisibili i suoi orrori: silenzioso, asettico, si rivela covo di sfruttatori, albergo di morte.
Frears, soprattutto attraverso gli stacchi di montaggio, inserisce nelle pieghe della narrazione situazioni visivamente ambigue, che aggiungono mordente alla rappresentazione di questa vulnerabile umanità. E’ l’esercito degli immigrati non regolari, la cui esistenza è dominata dalla precarietà, con gradazioni diverse: alcuni non hanno il permesso di soggiorno, altri non hanno il permesso di lavoro, qualcuno non può più andare via. E’ il mondo, come dice il protagonista
, di quelli che nessuno vede, che lavorano di notte, o in luoghi che ufficialmente non esistono, ricattabili da tutti e da tutti sfruttati.
Il regista riesce a farci percepire questa disperazione, ma senza la rabbia e la causticità del passato (
My Beutiful Laundrette, Sammy e Rosie vanno a letto), e alcune battute hanno più l’effetto di alleggerire il clima che non quello di graffiare. Così le due anime del film, quella dello spaccato sociale e quella thriller, rimangono sostanzialmente in equilibrio, grazie soprattutto ad una ripresa di ritmo nella parte finale, che riesce a sorprendere anche lo spettatore più smaliziato.
Degli attori, oltre allo sguardo dolente del protagonista, colpisce la sfacciata simpatia
del “cattivo” Sergi Lopez (Una relazione privata) e la trasformazione di Audrey Tautou, la Amelie del film di Jeunet, anche se, di fronte all’ammirato stupore di molti per la sua capacità di calarsi nel personaggio di un’immigrata turca, non si può non concordare con la lapidaria risposta del regista: “è un’attrice; in fondo il suo mestiere è proprio quello di recitare”.
A margine una notazione curiosa: qual è il libro che l’amico portantino consiglia al protagonista ? I miti greci !

Licia Miolo     

 

A Snake of June (Rokugatsu no hebi)
Shiya Tsukamoto - Giappone 2002 - 1h 27'

E’ stata indubbiamente una scelta coraggiosa quella della giuria della sezione Controcorrente (che ci sia stato lo zampino del giurato Ghezzi?) di attribuire il Premio Speciale a quest’opera di Shinya Tsukamoto, regista di culto per una fascia abbastanza ristretta di cinefili. D’altra parte rientrava proprio nello spirito della sezione privilegiare pellicole innovative soprattutto sul piano del linguaggio e, se non tutte quelle che si sono viste rispondevano a queste aspettative, questa non le ha certo deluse. A Snake of June è un film non facile (difficilmente troverà canali di distribuzione), ma che merita di essere visto per la potenza delle immagini e per l’abilità della regia nell’adeguare le scelte stilistiche ai contenuti espressi.
Ciò che colpisce sin dalle prime immagini è il colore della pellicola o meglio l’assenza di colori: il film è girato in bianco e nero, così come
Tetsuo: the iron man, il primo lungometraggio del giovane Tsukamoto e Bullet Ballet, visto a Venezia qualche anno fa. Ma qui la monocromia del bianco e nero è virata al blu… Altro elemento spiazzante per le abitudini di visione dello spettatore è la dimensione dello schermo: un quadrato, al cui interno i corpi vengono ripresi prevalentemente a figura intera, per una scelta precisa del regista in contrapposizione al cinemascope dei pink film (film soft core) molto diffusi in Giappone. E se la storia raccontata potrebbe rientrare nella categoria dei soft o meglio degli hard core la potenza visionaria di Tsukamoto ne fa tutt’altra cosa!
La vicenda rispecchia il panorama piuttosto sconfortante delle relazioni interpersonali del Giappone di oggi, descritto abbondantemente nei romanzi di Yoshimoto e Murakami: una coppia borghese vive con apparente serenità un rapporto dal quale il sesso sembra completamente escluso. Lei (Asuka Kurosawa) lavora come consulente telefonica presso un ente che si occupa di igiene mentale e lui (Yuji Kotari) è un importante uomo d’affari che passa il tempo libero a pulire ossessivamente la casa, perché la fobia per lo sporco è tale da fargli assumere delle pastiglie che rendono inodori i propri escrementi. Questa serena vita familiare viene sconvolta dall’arrivo di una busta indirizzata alla donna contenente delle foto che la ritraggono nell’atto di masturbarsi. Il misterioso ricattatore la costringe a pratiche di autoerotismo sempre più hard, cui lei si sottopone inizialmente controvoglia, poi con sempre maggiore soddisfazione per la consapevolezza di essere spiata e ripresa dallo sconosciuto. E se per la donna è l’essere guardata la fonte del piacere, per il marito, al contrario, sarà il guardare scene lascive in un club, dove è stato trascinato dal medesimo ricattatore- benefattore, che farà rinascere il desiderio sopito.
Se nelle altre opere di Tsukamoto questo risveglio dei sensi è generato da uno stimolo esterno, la violenza, stavolta nasce invece dal corpo stesso. Ed è sui corpi che si sofferma maggiormente lo sguardo del regista: corpi singoli che non si toccano mai, a figura intera perfettamente racchiusi dal quadrato dello schermo, in particolare il corpo dell’attrice Asuka Kurosawa, la cui bellezza di porcellana, come in una fotografia di Araki, ambiguamente contrasta con le pratiche talvolta degradanti a cui è costretta.
Lo sfondo è quello di una città martellata da una pioggia ininterrotta di Giugno, dove l’unico elemento naturalistico è costituito dall’immagine ricorrente di una pianta di ortensia con una lumaca. E qui ci viene in aiuto il regista stesso che dichiara che proprio un’ortensia e una chiocciola erano protagoniste di un racconto da lui scritto a sette anni e pubblicato sul giornale della scuola. “Non mi ricordo il suo testo ma per me, che ero un bambino estremamente timido, fu la prima opera originale ad essere apprezzata dagli adulti. Quando ripenso al disegno che accompagnava il tema mi torna alla mente l’aria blu cristallina che circondava l’ortensia. Ritengo che sia stato proprio quel blu a orientare nella giusta direzione il film ambientato nella stessa stagione delle piogge. Volevo provare a vedere cosa c’è di puro, amabile e nobile nell’infima volgarità.”

Cristina Menegolli    

 

 

Venezia 59

Leone d'oro
Magdalene
Peter Mullen

Gran Premio Giuria

La maison de fous

Andrej Konchalovsky

Premio speciale regia
Oasis
Lee Chang-dong
Premio contributo individuale
Ed Lachman (fotografia)
Far from Heaven
Coppa volpi
femminile
Julien Moore  (interprete)
Far from Heaven
Coppa volpi
maschile
Stefano Accorsi (interprete)
Un viaggio chiamato amore
Premio Mastroianni
attore emergente
Moon So-ri (interprete)
Oasis
 
Leone d'argento cortometraggio
Clown
Premio corto europeo
Lover of Pirates
Premio corto europeo: Menzione
Tempo
 

Controcorrente

Premio San Marco

Springtime in a Small Town
Tian Zhuang  Zhuang

Premio speciale Giuria

A Snake of June
Shinya Tsukamoto

Menzioni speciali

La virgin de la lujuria
Arturo Ripstein
Renmin Gongche
Fruit Chan
 

Premio Opera Prima Luigi De Laurentis
(ex aequo)

Due amici
S. Scimone - F. Sframeli
Roger Dodger
Dylan Kidd
 

Settimana
della Critica

Premio Cni-Cult Network

La tribù dei sogni
Chen Wen-Tang
 
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