Il Far East Film Festival è
sempre un potente sismografo: in questa ventisettesima
edizione le vibrazioni più forti a Oriente sembrano
provenire da due fonti, la Cina e il mondo femminile. La
prima è apparsa dominante non solo per aver guadagnato
il primo e il terzo posto nella classifica dei film
premiati, ma anche per la carica di energia propulsiva,
quasi espansiva, che le opere, al di là dei temi,
esprimevano. Quanto al femminile, molte tematiche ad
esso legate sono state al centro dell'attenzione, anche
grazie alla presenza di ben dodici registe donne.
Il podio
fotografa bene questa tendenza. Al primo posto la
regista cinese Yihui Shao con il film
Her Story,
che racconta come una giornalista, dopo il divorzio,
cerchi di crescere da sola la propria bambina,
affrontando le difficoltà dell'indipendenza e trovando
alleanza in una giovane vicina musicista. Il film tocca
molti dei problemi di una società patriarcale
(pregiudizi, stereotipi, violenza domestica) ma lo fa in
una chiave leggera, puntando sul ritmo vivace e
soprattutto sui dialoghi brillanti, con le battute più
fulminanti affidate alla piccola di casa. Così questa
"commedia femminista", partita molto in sordina, è
diventata campione di incassi nel suo paese e ha
conquistato anche il pubblico del Far East.
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Her Story |
Ma non è
un caso isolato: lo dimostra il successo in Cina del
film della nostra Paola Cortellesi
C'è ancora un domani (più di un milione di
spettatori), che ha molte affinità con l'opera che qui
ha guadagnato il terzo posto, Like a Rolling Stone,
della regista cinese Yin Lichuan. È la storia
vera di Su Min, una donna che a più di 50 anni decide di
lasciare marito, fratello, figlia e nipote per fare ciò
che ha sempre desiderato. La costruzione del film è
tradizionale, ma i classici flash back che ripercorrono
la vita della protagonista riescono a farci comprendere
bene i meccanimi per cui una persona in origine forte e
volitiva possa rimanere ingabbiata per così tanto tempo:
non fatti drammatici, ma di volta in volta circostanze
oggettive, senso del dovere e ricatti morali. Il seme
dell'autoaffermazione però resiste e quando germoglia lo
fa in modo inaspettato e davvero liberatorio: Su Min ha
percorso in auto da sola tutta la Cina (più di 400 le
città toccate) diventando un'amatissima blogger.
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Like a Rolling
Stone |
Proviene
daiia vicina Hong Kong il film di Anselm Chan
The
Last Dance – Extended Version, che si è aggiudicato
il secondo posto e insieme il premio assegnato dai
fedelissimi accreditati Black Dragon. Il mondo è quello
dei servizi funerari e il pensiero va subito a
Departures: come nel film giapponese del 2008,
anche qui il protagonista è un neofita (prima faceva il
wedding planner) che impara dagli errori ad amare
il suo nuovo lavoro e ad aiutare davvero i parenti dei
defunti. Nel percorso sono toccati vari temi, ma
sicuramente lo spettatore è colpito dalla specificità
culturale della cerimonia taoista e in particolare dallo
scenografico rito dell'apertura delle porte
dell'inferno.
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The Last Dance –
Extended Version |
Da
cinematografie di paesi emergenti provenivano quest'anno
diversi film interessanti. A Diamonds in the Sand,
della regista filippina Janus Victoria, è andato il
premio per la migliore opera prima. Dalla Thailandia si
è fatto notare lo scatenato The Stone, di Arak
Amornsupasiri, incentrato sul mercato degli amuleti,
meritevole se non altro di averci fatto scoprire questo
mondo. Ha deluso il malesiano Next Stop, Somewhere,
girato da due troupe in due paesi diversi: il montaggio
fallisce nel dare unità di stile ma soprattutto
convergenza di senso alle due storie sulla ricerca della
libertà. Inaspettatamente arriva dalla Mongolia il
miglior noir del Festival, Silent City Driver
di
Janchivdorj Sengedorj, che gli spettatori di Mymovies
hanno premiato col Gelso Viola. Ambientato nella
capitale, Ulan Bator, il film segue fino in fondo il
percorso di solitudine e disperazione di Myagmar un
giovane ex detenuto, spiazzando però lo spettatore con
alcune suggestioni visive e sonore.
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Diamonds in the
Sand |
Silent City
Driver |
Tornando
ai tradizionali protagonisti del Festival, il
Giappone quest'anno ha presentato molte opere sulle
incertezze dei giovani nell'affrontare l'amore e in
generale la vita, ma nessuna ha lasciato il segno. Il
film più riuscito è dedicato invece alla vecchiaia,
Teki Cometh, e lo firma un maestro, Yoshida Daihachi,
portando sullo schermo un romanzo di Tsutsui Yasutaka.
La routine quotidiana di un anziano professore di
francese in pensione (l'ottimo Nagatsuka Kyozo),
scandita da gesti e attività all'insegna della cultura e
dell'eleganza, comincia ad essere animata da presenze e
fatti minacciosi: il teki in arrivo del titolo significa
appunto nemico. Se è difficile capire la consistenza
reale di questi fantasmi, grazie anche alla scelta del
bianco e nero, certo i sogni/incubi ci dicono del
compassato professor Gisuke e delle sue paure più di
quanto lui stesso non sappia. Presentato in modo
fuorviante come un lynchiano, forse ha finito per
essere penalizzato dalle aspettative così create.
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Teki Cometh |
Ad una
straordinaria coppia è andato infine il Gelso d'oro alla
carriera: l'attrice, regista e produttrice Sylvia Chang
e il leggendario regista e produttore Tsui Hark. La
premiazione è stata l'occasione per presentare i loro
due nuovi film, ma ci ha anche regalato la possibilità
di vedere una pellicola del 1984 appena restaurata in
4K, Shaghai Blues, una deliziosa screwball comedy
ambientata negli anni '40, che omaggia al meglio il
genere.
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Shangai Blues |
Tastando
il polso al Festival, dobbiamo evidenziare che i numeri
(65.000 spettatori) certificano un'ottima salute. E
anche il coinvolgimento della città, grazie alla ormai
consolidata ricchezza di eventi collaterali, sembra
sempre più convinto, come affermano soddisfatti Sabrina Baraccetti e Thomas Bertacche. Da parte nostra contiamo
sulla prossima edizione del festival per capire sempre
un po' di più di un Far East sempre più "vicino".
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YOKAI E ALTRI MOSTRI
SI AGGIRANO PER UDINE
Film horror,
fantasy e
commedie soprannaturali sono una presenza
costante e molto attesa nel programma del FEFF, in
quanto rappresentano una parte significativa della
produzione dei film asiatici. Il folklore e la mitologia
di paesi con origini culturali fortemente animiste, come
il Giappone, ma non solo, sono popolati da una
vastissima quantità di creature fantastiche buone o
cattive, dispettose o terrificanti, ma sempre
affascinanti e temibili, che spesso il cinema ha voluto
rappresentare.
La RETROSPETTIVA di quest'anno portava
l'accattivante titolo YOKAI e altri mostri: dal
folklore asiatico al cinema: e comprendeva 12
film (alcuni anche con firme importanti come Miike
Takashi e Tsui Hark), che spaziavano tra horror e
fantasy, tra presente e passato, tra storia e
leggenda, creando un affascinante itinerario, dove il
piacere della paura veniva declinato in ogni sfumatura
possibile. Scopo della retrospettiva era quello di
esplorare nella produzione cinematografica orientale
“i modi in cui le radici autoctone, il folklore dei
paesi asiatici, si sono tradotte, attraverso varie
trasformazioni, in film.”
Così gli spettatori di nicchia, che frequentano la sala
del Cinema Visionario, luogo deputato alle
retrospettive, hanno scoperto che la Krasue thailandese è una
spaventosa testa fluttuante, che la
Pontianak del
SudEst asiatico è una donna fantasma violenta e
vendicativa e che la Gumiho coreana è una
malvagia e seducente volpe a nove code, che la
Manananggal filippina si trasforma in pipistrello,
che lo Jiangshi, il vampiro cinese è una sorta di
zombie saltellante, che opera sotto l'influsso delle
magie taoistiche e che gli Yokai sono bizzarre
creature nipponiche di origine mitologico-religiosa
(diverse quindi dagli Yurei che sono i fantasmi),
che si manifestano nei modi più svariati: dalla yuki
onna (donna delle nevi) dal respiro letale all'amikiri,
uno spiritello che si diverte a bucare le zanzariere.

Oltre alla ricca retrospettiva e a una pubblicazione
sull'argomento, il FEFF
ha organizzato
anche una esposizione-evento Mondo Mizuki, Mondo
Yokai presso il museo di arte contemporanea Casa
Cavazzini in collaborazione con Canicola di
Vincenzo Filosa, dove si possono ammirare 100 tavole
originali, riviste, documenti, video del grande maestro
giapponese di manga Shigeru Mizuki, specialista di
storie di yokai e studioso del relativo folklore,
opere mai esposte in Italia (la mostra resterà aperta
fino al 30 agosto). Le sue tavole popolate da verruche
parlanti, cloni ninja, alchimisti cialtroni e mantelle
volanti parlano di creature e leggende di epoche antiche
che Mizuki ha traslato nei meandri delle grandi
metropoli del Giappone moderno. Anche il cinema, come ha
dimostrato la ricca retrospettiva, si è appropriato,
ridefinendole, di queste creature ereditate dal folklore
del passato, come è successo peraltro anche in
occidente: emblematico in questo senso l'affascinante
The Snow Woman, di Tanaka Tokuzo del 1968
(restaurato nel 2024).

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