ottobre-novembre
dicembre 2007

trimestrale di cinema, cultura e altro...

n° 21
Reg.1757 (PD 20/08/01)

 

                

Cinema & psichiatria

Martina Calvi

 

Le Giornate del
CINEMA MUTO
di Pordenone
XXVI edizione

Maria Cristina Nascosi

  Una rassegna cinematografica a tema di forte impatto psicologico quella promossa a Padova (Porto Astra) da Università, Usl 16 e Promovies, supportata dall'analisi "clinica"  del professore  Luigi Pavan, incentrata sui disturbi della personalità e sulle sofferenza interiori che  possono condurre al baratro della disperazione e della follia.
Ha dato il via agli incontri il 
Il buio nella mente di
Claude Chabrol, che narra la fusione di due solitudini, due esistenze femminili marginali confinate nella campagna francese e costrette a costumi molto umili. Le vite di queste due donne, interpretate da Isabelle Huppert e Sandrine Bonnaire, s’incrociano per caso dopo aver entrambe percorso la strada del crimine: macchiate di sangue e assolte per insufficienza di prove, ma sensibilmente angosciate ed incapaci di reintegrarsi nella società. Chabrol intesse una trama sottile ed è maestro proprio nell’indagare questi aspetti della vita, scandagliando in profondità i drammi personali di queste figure, come in un romanzo. Il tribunale ha assolto entrambe, ma il tribunale della coscienza è vivido sino all’ossessione, i loro misfatti non si possono cancellare. Una delle due donne si chiama Sophie Bonhomme, è analfabeta ed è chiusa in un mutismo che la porta ad ergere una barriera difensiva tra sé e il mondo, va a servizio presso una famiglia altolocata, dove tenta in tutti i modi di nascondere le proprie difficoltà. La proprietaria della grande villa, Catherine Lelièvre, rappresenta ciò che Sophie non riesce ad essere, il suo “alter ego” che ne alimenta pesanti frustrazioni. La migliore amica di Sophie è Jeanne Marchal, la postina del paese, una ficcanaso lunatica, ma la sola con la quale si lasci andare a confidenze e dialoghi. Ben presto, tuttavia, il legame di affettività tra Sophie e Jeanne si tramuta in un mutuo soccorso morboso: c’è tanta voglia di fuggire da sé e dalle proprie colpe e responsabilità, un desiderio a cui si accostano ribellioni e forti tormenti. Non ultima, la volontà di annullare la perfezione e la felicità di quella famiglia alto borghese con un raptus di follia omicida. La villa è il simbolo del benessere, la casa, più semplicemente, di quegli affetti negati che è meglio recidere per non vedere o ricordare, la borghesia di quella libertà e di quei piaceri mai avuti, che solo un omicidio può eclissare tramite un gesto disperato.
Dallo sfogo della rabbia sugli altri si passa alla paralisi e all’annientamento con la proiezione di carattere documentaristico del film
The bridge. Il ponte dei suicidi di Eric Steel, che mostra il vuoto che si crea con il “salto” nel Golden Gate di San Francisco. Un ponte dal quale in quattro secondi si finisce inghiottiti dalle acque. In America sta diventando un problema serio perché i “jumper” sono sempre più, senza distinzione di colore della pelle, di sesso, di ceto. In quel balzo c’è lo stacco dalla vita, c’è il rifiuto di continuare e il ponte è un luogo-limite o, come direbbe l’antropologo Marc Augé, un “non-luogo”. Infatti ci si trova tra la vita e la morte e arrivarci significa aver perso l’orientamento, aver perso la scommessa che ci sono tante cose per cui vale la pena andare avanti. La parte documentaristica di questo film è molto ampia e si vedono figure lanciarsi nel buio: sono state riprese mentre si buttavano delle persone che si sono ammazzate davvero e che Steel ci mostra con coraggio.
Il tema del suicidio viene affrontato anche ne Il giardino delle vergini suicide di Sofia Coppola. La regista ha una grande intensità e delicatezza espressiva e le sue protagoniste sembrano le damigelle di un quadro pre-raffaellita: sono angeliche creature alla ricerca di un ideale, il primo amore e la felicità, che s’immolano come delle vittime sacrificali. L’amore, limpido e cristallino, si spezza nella morte, pur di non consumarsi nella viltà dei giorni. Ritornano due temi classici della narrativa e della poesia, sin dai tempi antichi, incentrati sul rapporto “eros e thanatos”. Le cinque sorelle protagoniste del film, sono fanciulle aggraziate e dolci, malinconiche figure che vorrebbero scappare con loro coetanei, ma sono sottomesse da una famiglia autoritaria. Il legame tra le cinque sorelle è molto forte, ma ha una natura patologica che le spinge all’autoaggressività e ad un volo oltre la vita.

 

 La XXVI edizione di quello che è considerato uno dei più bei cinefestival del mondo – che, per intenderci, vede l’arrivo di appassionati e giornalisti fin da oltre oceano – è tornato a…casa.  Dopo la pluriennale parentesi in cui per cause tecniche e logistiche ha dovuto essere collocato nella adiacente Sacile, ora ha ritrovato la sua sede di nascita e di elezione nel rinnovato teatro Verdi, bianca artistica cattedrale nel cuore di Pordenone.
Come sempre la ricchezza delle offerte e degli eventi era da cine-sindrome di Stendhal (se si passa il neologismo, orribile ma non esagerato): musica ed immagine l’hanno fatta da padroni per un programma che spaziava tra temi ed autori lontanissimi tra loro , ma vicinissimi nel cuore dei cinefili.
L’altra Weimar, territorio immenso tra Espressionismo, Kammerspiel, Lang, Murnau (per non citare che alcuni ismi ed autori), punta di un iceberg pressoché sconosciuto, tra cui presenze ebraiche nella produzione tedesca come Die Hose (A Royal Scandal), il film di Hans Behrendt, futura vittima della Shoah, interpretato da Werner Krauss e Veit Harlan, figure centrali di Jud Suess–Suss l’ebreo, alla visione di Lulù di Pabst, con una grande grandissima Louise Brooks, icona sempiterna della cinematografia di tutti i tempi.
René Clair si può forse definire il regista di fama più equivoca: molti lo osannarono, molti lo denigrarono. Non piaceva alla feroce critica della Nouvelle Vague, certo, ma i cosiddetti divertisséments su cui appose la firma tra il 1923 ed il 1928, lo sono di certo, pieni di verve, di ricchezza umoristica, di trovate geniali a livello scenografico, ben ‘copiate’ poi da molti. Godibilissimi, intrattenimento allo stato puro e visti in ottima copia restaurata i suoi Le voyage immaginaire, La proie du vent, Paris qui dort, Les deux timidés, l’impagabile Le chapeau de paille d’Italie, magistralmente interpretato anche dai comprimari minori, in perfetto equilibrio per uno dei primi pezzi di vero teatro al cinema. Ma la parte del leone l'ha fatta sicuramente il notissimo Entr’acte, musicato dal grande Erik Satie su opere di François Picabia, Marcel Duchamp, Man Ray.
L'omaggio all’opera di David W. Griffith (per il periodo 1921–1924) -  iniziato virtualmente a Venezia che, all'ultima Mostra ha proposto come evento di apertura (nella corsia delle Nuove Versioni Restaurate),  Intolerance, il capolavoro del 1916 - con ben cinque titoli tra cui Orphan of the Storm.
Chicago, splendido film con altrettanto memorabile colonna sonora (affidata all’esecuzione dell’ensemble musicale Prima Vista Social Club), qui in anteprima europea con copia in 35 mm. di recente restaurata dall’Ucla. Cecil B. De Mille, dato il fatto di cronaca nera base del plot della pellicola, ne fu il supervisore artistico. Nello stesso periodo stava lanciando il suo kolossal religioso, Il re dei re, per cui non sarebbe stato opportuno che il suo nome fosse associato ad una storia noir; dunque è sicuramente più corretto dire che il suo aiuto, Frank Urson, ne è in fondo l’autore. Chicago resta in ogni caso un testo di importanza quasi unica nella storia del musical, "accreditato" dalle molte altre versioni, buon ultima quella del 2002,  ispirata al musical di Bob Fosse, diretta da Rob Marshall.