Alì ha gli occhi azzurri
Claudio Giovannesi - Italia 2012 - 1h 40'

 Nader ha sedici anni e una fidanzata italiana invisa ai genitori e alla legge islamica. Ma a lui, figlio della seconda generazione, non importa niente delle 'tradizioni', delle proibizioni, delle preghiere in Moschea, quello che desidera veramente lo prende subito, rapinando una drogheria, accoltellando un coetaneo, comprando una fedina e giurando eterno amore sulle note di Gigi d'Alessio. Condivide la sua boria, i suoi pochi anni e i tanti danni con Stefano, compagno di scuola e di ventura, mollato dalla fidanzatina e ostinato a riprendersela. Per amor proprio, non per amore. Rincasato ancora una volta dopo la mezzanotte, Nader viene lasciato fuori e invitato dalla madre a riflettere sulla sua condotta. Una notte che diventa giorno e giorni consumati tra la periferia e la città, lungo il Lido di Ostia, dentro la metropolitana, fuori sulla spiaggia, sfuggendo quattro rumeni incazzati a cui ha ferito il figlio, dipanando contraddizioni e 'chiedendo asilo' tra le lacrime a un'innamorata che non sorride più.
Muovendo dalla Profezia di Pier Paolo Pasolini, Claudio Giovannesi
film successivo in archivio richiama fin dal titolo l'Alì del poeta, quel sottoproletariato di cui rimpiangeva l'innocenza perduta dentro un'invisibile rivoluzione conformistica. Nader gli occhi li ha neri e nascosti dietro lenti azzurre che alterano lo sguardo in bilico tra due età e due culture, quella egiziana e quella italiana. Dopo averlo documentato nel terzo episodio di Fratelli d'Italia, documentario sull'adolescenza 'esotica', Giovannesi mette in scena Nader, trasformandolo in un personaggio e declinandolo in un percorso formativo lungo una settimana. Sette giorni per cercare un'identità e una tregua, se non una risoluzione, al conflitto tra la cultura islamica e quella occidentale, sette giorni per crescere provando ad assumerle entrambe, trasformando la duplicità in ricchezza.
Ma il regista romano fa di più che pedinare un adolescente e scrivere per lui una storia d'amore contrastata di quelle predilette dal cinema italiano, che quando racconta il sentimento non può fare a meno di evocare tradimenti, adulteri, gelosie e strepiti. Alì ha gli occhi azzurri sposta di senso e di valore la crisi dell'adolescenza, in direzione di uno smarrimento universale prodotto dall'omologazione culturale e dalla mutazione antropologica, evitando il didascalismo sociologico e l'assoluzione compassionevole. Nader è figlio dei nuovi poveri, è il nuovo ragazzo di vita che abita le (stesse) periferie squallide che ridestano appetiti bestiali e ambizioni borghesi. Nader è "il barbaro imborghesito", nato dagli emigranti approdati alle 'nostre terre' dai loro paesi lontani, che pratica apatico la cultura diffusa del godimento pulsionale, chiuso su se stesso, monadico e sterile. Giovannesi, attraverso un film commosso e lirico tenuto saldamente al terreno da un piglio rigoroso e politico, svolge la vita di un ragazzo che riconosce i mostri che stanno anche dentro, dichiarando guerra a una parte di sé, rimandando (forse per sempre) un piatto di minestra e il ritorno al focolare domestico e genitoriale, incapace di nutrire correttamente il conflitto e di trasmettere la potenza generativa del desiderio. Nello sguardo di Giovannesi c'è l'orgoglio che il cinema sa dare ai suoi personaggi quando li sente veri e quando sa che il loro ruolo non si esaurisce dentro lo schermo, ma diventa necessario nel mondo che ricomincia dopo la fine del film.

Marzio Gandolfi - mymovies.it

 Dopo Saimir di Francesco Munzi ecco un altro film italiano capace di raccontare l'integrazione dal punto di vista degli immigrati. E' Alì ha gli occhi azzurri di Claudio Giovannesi che ritorna al Festival di Roma - stavolta in concorso e con un film di finzione - portandosi dietro uno dei personaggi al centro del lavoro precedente, l'egiziano Nader Sarhan del documentario Fratelli d'Italia.
Nader proviene da una famiglia egiziana stabilitasi a Ostia, è iscritto a una scuola secondaria frequentata da tantissimi immigrati di seconda generazione, (è l'Istituto Toscanelli), si sente figlio di due patrie. È uno straniero italiano. Trascorriamo sette giorni nella sua vita: Nader mentre pratica l'arte del bighellonaggio, Nader che "marina" la scuola per i matiné, Nader che balla e balla, dal freddo e sulla linea della legalità, accompagnato da un buon amico che è anche un buono a nulla.
Nader che adora la famiglia e che ama la sua ragazza (la vera famiglia del vero Nader, la vera ragazza del vero Nader), due affetti inconciliabili perché lei è italiana, mamma e papà no. Nader che fugge via, di casa, da scuola, da una cultura - musulmana - che non sente più come la propria, Nader che porta pure le lenti azzurre per sembrare meno egiziano e "vedersi" più italiano. Ma Nader non lo è del tutto, non ancora, neanche in fondo a se stesso.
Non si trova, né qui né lì, nonostante Giovannesi lo marchi stretto. Ispirandosi a un verso di una poesia di Pasolini ("...dietro ai loro Alì dagli occhi azzurri...", Profezia, 1962) ma facendo sua la lezione dei Dardenne
film precedente in archivio - macchina a mano, pedinamento, montaggio rapido, improvvisazione e spaesamento - il regista romano aderisce all'ottica biforcuta del suo personaggio, il cui secondo sguardo, quello italiano (le lenti a contatto azzurre), non riesce a fondersi con quello primario.
Fotografato da Daniele Ciprì (che opta per una luce rigorosamente naturale), Nader s'imprime sulla pellicola come l'incompiuto, l'adolescente le cui intenzioni rimangono inespresse, tradite da un'azione che s'inceppa (prima non riesce a rapinare un negozio da solo, poi a fare l'amore con la propria ragazza, infine ad "aggiustare" le cose con i rumeni) e sparisce lungo un tragitto - di crescita, d'integrazione, in una parola: identitario - che gira a vuoto. Non si trova più Nader - come potrebbe? - perché si nega alle classiche logiche del racconto, rifiuta una maschera, non si lascia imbrigliare nel dover-essere del conformismo, delle culture e della narrazione. Giovannesi sottopone la fiction al metodo del documentario, lasciando che sia il vero Nader a generare se stesso sullo schermo, sganciandolo da qualsiasi appiglio psicologico, sociologico, spettacolare, non assegnandogli nemmeno uno spazio, che si dipana sul momento, tracciato dal movimento degli attori in scena. Ostia è una periferia come tante, il mare un orizzonte qualsiasi, la scuola un luogo riconoscibile solo quando entra in contatto con le orbite esistenziali dei ragazzi.
Gli occhi di Alì sono fintamemente azzurri, quelli di Giovannesi sono cristallini per davvero: non stravolgeranno il cinema italiano ma gli restituiscono una purezza di cui aveva bisogno, scovando una volta tanto nel cuore del reale, e non nella testa di uno sceneggiatore, una piccola grande storia.

Gianluca Arnone - cinematografo.it

promo

Il titolo si rifà al romanzo di Pier Paolo Pasolini. Stefano e Nader condividono ogni momento della loro esistenza. Entrambi adolescenti della periferia romana invischiati in loschi giri, uno italiano e l'altro egiziano, passano dalle rapine al supermercato alle mattinate in discoteca senza che nulla intacchi il loro rapporto. Anche Brigitte, la fidanzata di Nader, è italiana ma i genitori del giovane si oppongono a un amore che considerano contrario ai loro valori culturali. Dopo l'ennesimo scontro in famiglia, Nader decide di scappare di casa per andare incontro a una settimana in cui cercherà di scoprire la propria identità... Diviso tra l'essere italiano e le radici egiziane, sopporterà freddo, fame, paura, solitudine e perdita dell'amicizia per di capire chi è.
Giovannesi sottopone la fiction al metodo del documentario (i protagonisti del film sono giovani ragazzi di vita non professionisti), lasciando che sia il vero Nader a generare se stesso sullo schermo, sganciandolo da qualsiasi appiglio psicologico, sociologico, spettacolare e costruendo  un film commosso e lirico tenuto saldamente al terreno da un piglio rigoroso e sincero. Una piccola grande storia.

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