Buongiorno, notte
Marco Bellocchio
- Italia 2003 - 1h 45'

Premio contributo alla sceneggiatura

   Bertolucci, in conferenza stampa, ha dichiarato che i giovani della sua generazione (la meglio gioventù?) avevano in più “la speranza” e che l’utopia che la sostenne partì con la protesta per l’allontanamento di Henri Langlois dalla Cinémathèque di Parigi (da cui scaturì il ’68, come narra in The Dreamers) e si spense dieci anni dopo con l’assassinio di Aldo Moro.
In una suggestiva sintonia di idealità lacerate,
film precedente in archivioMarco Bellocchiofilm successivo in archivio rilegge la devastante barbarie degli anni di piombo “regalando” al delirio violento dei brigatisti e all’asfittica fermezza dei palazzo l’inesausta forza dell’immaginazione, la sublimazione dell’introspezione psicanalitica, l’eterno sogno del cinema.
Buongiorno, notte (un verso di Emily Dickinson a stigmatizzare il buio che avvolse la politica italiana) non rinfocola contrapposizioni partitiche, non insegue la verosimiglianza (Roberto Herlitzka è un Moro attendibile essenzialmente per intensità interpretativa), concede ben poco a digressioni non rigorosamente storicizzate (l’invenzione, fruttuosa, del copione trovato nella borsa di Moro, la grottesca e stonata parentesi della seduta spiritica). Non esterna nuovi moniti morali (ce n’è forse bisogno?), ma prova a ridelineare “dall’interno” i dubbi di un agire insano ed estremo che via via si svuota di ideali e si tormenta nell’incertezza.
Nel riferimento letterario al romanzo Il prigioniero (dell’ex-brigatista Anna Laura Traghetti) il fulcro del racconto è il personaggio di Chiara (bravissima Maya Sansa), la “vivandiera”, l’unica donna nel gruppo dei terroristi, che da dentro vive la tragedia: è lei la sposa fittizia che abita ufficialmente l’appartamento di via Gradoli (e che segue in tv, come tanti altri italiani, la cronaca del rapimento), è lei la testimone del tempo, che vive nel mondo esterno la reazione popolare alla strage di via Fani, che assiste, dall’interno, al consumarsi dell’assurdo processo “rivoluzionario”. È lei che evoca, tra quelle mura-prigione (per Moro e per i brigatisti stessi ivi asserragliati) una riflessione civile fatta di contraddittorie esperienze e visionario onirismo: un pranzo coi parenti che intonano Fischia il vento, le immagini di Dziga Vertov e Rossellini per dare concretezza al dramma della coscienza, rievocando Lenin e Stalin, accostando le brutali esecuzioni dei partigiani con quella dello statista, ritrovando nella lettura delle Lettere dei condannati a morte della Resistenza la pena del commosso epistolario di Moro. È lei che lo spia, prigioniero, attraverso un foro nella parete, che “lo vede” muoversi liberamente nella casa, spirito saggio e indomito in un covo di dissennata estraniazione sociale.
È un cinema “da camera” quello di Bellocchio, lontano dal docudrama di Ferrara (
Il caso Moro, 1986), dal paradosso metafisico di Petri (Todo Modo, 1976), dalle cospirazioni fuorvianti di Martinelli (il recente Piazza delle cinque lune). Ma in quegli spazi angusti l’esplosione del vero cinema, visionario e ispirato, è totale. E alla partitura da camera, intimista e “sognante”, del Momento Musicale (Schubert) si contrappone, in un crescendo di intensa emotività, il fascino rock delle musiche dei Pink Floyd. Da The Dark side of the Moon (a contrappuntare la prigionia e l’esemplare sequenza dell’ascensore) a I Wish You Were Here (i funerali di stato), per tornare a Schubert nell’incedere conclusivo (libero e liberatorio) di Aldo Moro per le vie di Roma. Il potere del cinema e, solo grazie al cinema, ancora una volta, l’immaginazione al potere.

ezio leoni - La Difesa del Popolo - 7 settembre 2003