C'era una volta in Anatolia (Bir zamanlar Anadolu' da)
Nuri Bilge Ceylan - Turchia/Bosnia-Erzegovina 2011 - 2h 37'

Gran Premio della Giuria


    Avvolti da una notte buia squarciata solo dai fari di tre autovetture, sperduti nel panorama monocorde delle colline dell’Anatolia, ecco, in un viaggio alla ricerca di un cadavere e alla scoperta di un microcosmo di varie umanità, l’avventura (cinematografica) “da raccontare”, per i protagonisti e per lo spettatore.
C’è stato un breve prologo semi-urbano (marginalmente essenziale nell’economia del racconto), ma l’impatto figurativo di
C'era una volta in Anatolia è tutto affidato a quelle luci che fendono il buio, al tormentato andirivieni tra una collina e l’altra del manipolo d’uomini “in missione”: Cemal il medico, il procuratore Nusret, il commissario Naci, accompagnati da militari, funzionari e manovali nonché dall’assassino e dal fratello, suo complice.


Il ritrovamento del corpo è difficoltoso sia per il ripetersi di paesaggi sempre uguali, sia perché il reo confesso sembra non trovare riferimenti nella memoria di un omicidio segnato dall’alcool; ma il prolungarsi delle ricerca dà modo a Nuri Bilge Ceylan
film successivo in archivio (Uzak, Le tre scimmie) di sviscerare, tra chiacchiere e ricordi, le tormentate psicologie dei protagonisti. Cemal vive una sofferta esistenza di divorziato, il procuratore, vedovo, prova a rileggere con bonario distacco il dramma lancinante del proprio vivere, Naci trasferisce sul lavoro le tensioni di una travagliata situazione familiare.
La sosta obbligata presso un villaggio è l’occasione per un ulteriore momento di riflessioni e dialoghi, e per una parentesi di sublimazione introspettiva offerta allo sguardo dall’apparire di una giovane donna, resa ancor più bella e affascinante dal chiarore della candela che la incornicia agli occhi degli astanti, nell’oscurità del villaggio rimasto senza energia elettrica.


L’avvicendarsi del nuovo giorno porterà a compimento la ricerca ma non dissiperà i dubbi dell’indagine a cui anzi si aggiungono ambigui indizi che la regia dissemina con minuziosa avarizia. È lento infatti il ritmo di C'era una volta in Anatolia, avvolgente e faticoso (ma non parliamo di noia) e occorre tener desta l’attenzione per non lasciarsi sfuggire sequenze e costrutti rivelatori: lo scardinamento temporale di alcuni flash-back, il dialogo strozzato tra l’assassino (?) e il fratello, l’incerta paternità del ragazzino rimasto orfano, il surplus di brutalità che scaturisce dalle modalità dell’omicidio (l’uomo è stato sepolto vivo?). Non bastano il pc portatile e la videocamera degli addetti all’indagine a dipanare il velo arcaico che avvolge l’Anatolia di Nuri Bilge Ceylan.



Il suo film, di rare potenza e poesia, vive di emozioni intensamente cinematografiche: il folgorante contrasto tra oscurità e squarci luminosi, il pedinare i personaggi inserendoli in un paesaggio che sembra animarsi di vita propria; e, ancora, quell’indugiare sui volti, su primissimi piani che sembrano penetrare nello spirito dei protagonisti, quel pallone calciato nel finale che offre un residuo suggello di speranza. Ma c’è anche quella goccia di sangue che segna il viso del medico durante l’autopsia… Tra le tante esistenze irrisolte
C'era una volta in Anatolia affida soprattutto a Cemal il compito di condurci in un percorso di riflessione, di amarezza e inquietudine, ma anche di umanità, di una pietas con cui, nello stilare il suo rapporto, egli osa contravvenire, sottacendo, alla propria etica professionale.
Vale la pena allora di ripensare alla scena in cui, ad un certo punto, il dottore sembra guardare in macchina, rivolto al pubblico; in realtà Cemal si sta guardando allo specchio! Ecco ciò che Nuri Bilge Ceylan chiede a noi spettatori: non di compartecipare ad una storia o di identificarci con un personaggio, ma di trovare, frammento dopo frammento, sequenza dopo sequenza, lo stimolo per guardare dentro noi stessi, per usare ancora una volta il cinema d’autore come specchio del nostro essere.

ezio leoni - La Difesa del Popolo - 8 luglio 2012




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Avvolti da una notte buia squarciata solo dai fari delle automobili, sperduti nel panorama monocorde delle colline dell’Anatolia, ecco, in un viaggio alla ricerca di un cadavere e alla scoperta di un microcosmo di varie umanità, l’avventura (cinematografica) “da raccontare”. Il ritrovamento del corpo è difficoltoso sia per il ripetersi di paesaggi sempre uguali, sia perché il reo confesso sembra non trovare riferimenti nella memoria di un omicidio segnato dall’alcool; ma il prolungarsi delle ricerca dà modo alla regia di sviscerare, tra chiacchiere e ricordi, le tormentate psicologie dei protagonisti principali: il medico, il procuratore , il commissario... È lento il ritmo del film, vincitore del Gran Premio della Giuria a Cannes, avvolgente e "faticoso": occorre tener desta l’attenzione per non lasciarsi sfuggire sequenze e costrutti rivelatori. Nuri Bilge Ceylan chiede a noi spettatori di trovare, frammento dopo frammento, sequenza dopo sequenza, lo stimolo per guardare dentro noi stessi, per usare ancora una volta il cinema d’autore come specchio del nostro essere.

 

cinélite giardino BARBARIGO: giugno-agosto 2012

MAMMA LI TURCHI!


    Nuri Bilge Ceylan, 53 anni, è il regista turco più amato e premiato dai festival, soprattutto da quello di Cannes. Qui l’autore di Uzak (Grand prix speciale della giuria nel 2003) e Le tre scimmie (Palma d’oro per la regia 2008), nel 2011 ha presentato C’era una volata in Anotolia, viaggio notturno in auto sulle colline turche di un gruppo di medici della polizia e di due assassini che non ricordano il luogo in cui hanno sepolto il corpo della loro vittima Il film, un on the road notturno ricco di umanità e riflessioni esistenziali, amarezza e umorismo, ha vinto il Grand prix della giuria e finalmente, da oggi esce anche in Italia.
Ceylan, perché il titolo omaggio a Sergio Leone?
«Amo il suo cinema, ho imparato molto dai suoi film e dal quel suo magnifico stile a cui non ha mai voluto rinunciare, Ho scelto titolo durante il montaggio. Volevo che vi fosse la parola Anatolia quindi mi sono inserito in una tradizione che è di Leone ma anche di molte altre cinematografie»
Non deve essere stato facile girare un film tutto di notte...
«In effetti è stato un incubo, soprattutto economico, I miei finanziatori erano contrari: questo film è costato guarito i miei primi cinque messi insieme. Nelle campagne le uniche luci sono i fari delle macchine e la luna, produrli artificialmente, ma facendo in modo che sembrassero naturali è stato impegnativo. Ma era necessario. Come pure trovare il modo di rendere non troppo noiose le tante scene girate in macchina»
Nel film, oltre al gusto per la composizione dell’immagine. retaggio del suo passato da fotografo, è evidente quello per la costruzione dei personaggi nei particolari.
«Abbiamo passato ore, con mia moglie e il mio co-sceneggiatore, a discutere su ogni singolo dettaglio di ogni personaggio. Siamo partiti da un fatto accaduto al mio co-sceneggiatore, che è medico. Ma la storia della ricerca del corpo è un’occasione per riflettere sulla vita e sulla morte. Su cosa è l’essere umano, Situazioni come quella del film ci mostrano le persone fuori dal contesto quotidiano, ne rivelano forza, debolezze e convinzioni. Può succedere di prendere il caffè insieme tutti i giorni per anni e poi conoscere davvero un amico con un viaggio di una settimana».
La riflessione sulla percezione della morte è un tema non facile.
«lo sono cresciuto in campagna, dove si vive più vicini alla morte, se ne conoscono rituali e dettagli, In città, invece, isoliamo la morte, la rimuoviamo, non vogliamo vederla. Non sappiamo nemmeno da dove arriva la carne che è nel nostro piatto. In campagna si uccidono gli animali per mangiarli: ricordo che, da ragazzino, vedevo ammazzare gli agnelli in pubblico, davanti ai bambini che si erano affezionati a quegli stessi animali. Era pazzesco, come possono esserlo solo la realtà e la vita»

intervista a Nuri Bilge Ceylan di Arianna Finos – Il Venerdì di Repubblica