Dikoe Pole
Mikhail Kalatozishvili - Federazione Russa 2008 - 1h 44'

Venezia 65° - Orizzonti

    C’è un’immagine destinata a rimanere nella memoria di chi ha visto questo bellissimo film: un campo totale della steppa desertica del Kazakistan, al centro del quale si riconosce una fattoria diroccata. È il luogo in cui è ambientata tutta la vicenda che il film racconta: la storia di un giovane medico, che vive solo, con l’unica compagnia di un cane, ai confini del mondo, in attesa dei rari pazienti che vengono a chiedere aiuto, fino a che un’oscura minaccia, che egli ha cominciato a percepire attorno a sé, diventa realtà.
Una situazione di perenne attesa che non può non richiamare
Il deserto dei Tartari. Il deserto è il vero protagonista di questo film, come di molte altre pellicole viste a questo festival, dal memorabile Vegas di Amir Naderi, a The Burning Plain di Guillermo Arriaga, a Gabbla dell’algerino Tariq Teguia, al bel documentario di Gianfranco Rosi Below Sea Level.
Deserto come metafora della vita, ma soprattutto dell’aridità dei sentimenti in Naderi e Arriaga, deserto come fuga dal mondo per Teglia e Rosi, deserto come spazio senza tempo per Kalatozishvili, come luogo in cui “i sentimenti sono assoluti e prendono spesso il sopravvento sugli uomini….Attraversare la prateria nel nostro caso significa vivere la vita. Ma viverla non solo sopravvivendo…in questo tragitto l’uomo cambia tanto da essere irriconoscibile.” (da un’intervista a Radio Cultura Russa)
Dikoe Pole (Prateria selvaggia) parla infatti di come la morte si sciolga nella vita, di come si mescoli ad essa in una sostanza omogenea che non consente di tracciare un confine netto tra ciò che è vivo e ciò che è morto. Su questo inesistente confine vive il protagonista del film Mitja (il bravo e affascinante attore di teatro Oleg Dolin), un giovane medico, che, per la caratteristica stessa della sua professione, svolge il ruolo di traghettatore tra il mondo dei vivi e il mondo dei morti. Questa sua permanente condizione di frontiera trova il suo equivalente visivo nella casa, che non si erge, ma sembra fluttuare nella steppa.
Non è importante da dove venga e perché sia capitato lì, ciò che importa è come vive la sua vita, come assolve il suo desiderio di essere se stesso, come si rapporta con chi viene a interrompere la sua solitudine: il poliziotto locale, la fidanzata, che presto lo abbandona e i suoi pazienti, un uomo in crisi cardiaca conseguente a una sbronza, un contadino con la sua vacca malata, una fanciulla ferita per gelosia. Ma il suo vero interlocutore, il suo contro campo, è il paesaggio, sono le colline deserte che egli vede dalla sua casa e che, a un certo punto sembrano abitate da un doppio di sé. E sono proprio i movimenti di macchina, che ricordano per la loro ampiezza e fluidità il nostro Sergio Leone, di cui il regista si dichiara grande ammiratore, assieme agli effetti di montaggio, che sottolineano questo rapporto di compenetrazione tra l’uomo e il paesaggio.
Un eroe positivo dunque, uno dei pochi presenti in questa rassegna, il cui mondo interiore viene gradualmente rivelato allo spettatore dalla sapiente regia di Kalatozishvili, con tono pacato, non privo di humour, senza indulgere in quegli eccessi che spesso caratterizzano il linguaggio dei suoi connazionali.
Michail Kalatozishvili, tra parentesi nipote di un importante regista sovietico Michail Kalatozov (autore tra l’altro di
Dove volano le cicogne) è un 49enne cineasta georgiano, ma anche scrittore, produttore, direttore della fotografia, per realizzare questo mirabile film ha recuperato una sceneggiatura scritta negli anni ’90 da Lutzik e Samorjadov, due figure di culto nella cinematografia moscovita, entrambi deceduti, e, spogliandola dei riferimenti troppo espliciti alla storia della Russia del tempo della caduta del regime sovietico, ha collocato la vicenda in un tempo sospeso, congelato e pertanto sempre attuale.

Cristina Menegolli - MC magazine 24 ottobre 2008