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Premio speciale della Giuria |
Il Divo, che - come Gomorra - tratta temi molto presenti nell'immaginario e nella storia italiani, riesce nella sfida di ritrarre un personaggio di cui tutto è stato già detto procurando l'impressione che tutto sia inedito, originale. Frutto di un calibrato mix tra documento e invenzione. Dove è l'invenzione, la libera utilizzazione del materiale o la sua manipolazione creativa a imprimere forza al film. Le persone più vicine a Giulio Andreotti, i capi della sua corrente, esprimono un alone sinistro e cupo che è conseguenza dell'interpretazione artistica ma non per questo perde in attendibilità. Il colloquio tra Andreotti ed Eugenio Scalfari è inventato, ma come rende l'idea quell'appellarsi del senatore alla complessità delle cose, in risposta alle domande incalzanti del giornalista, e la sua esortazione a evitare le scorciatoie semplicistiche nel condannarlo. Non sarà vero in senso stretto ma quanta verità c'è nel passaggio in cui il presidente confessa il dolore cui lo condannano il pensiero di Moro e la domanda "perché le Br non hanno preso me?". E poi quello in cui egli assume la responsabilità di una pratica del Male che è servita a preservare, difendere, promuovere il Bene. Un film complesso, discutibile come qualsiasi opera che tocca argomenti tanto sensibili, dove la figura più nota di tutta la storia repubblicana, milioni di volte caricaturizzata per le sue inconfondibili caratteristiche fisiche, ci appare per la prima volta nella sua enigmatica dimensione umana e nella sua statura di moderno Nosferatu. Le forzature, le invenzioni, non mancano di restituirci un ritratto denso, realistico e indimenticabile. Il massimo di deformante soggettività produce il massimo di documento. Come fu per La dolce vita. |
Fabio Ferzetti - Il Messaggero |
Baciato
dal successo, come
Gomorra, segno che il pubblico si
fida del cinema italiano che parla della nostra storia, il film di
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Maurizio Porro - Il Corriere della Sera |
La macchina da presa avanza nell'oscurità. Poi nel buio compare una testa, trafitta di aghi per calmare il dolore. Sorrentino presenta l'"eroe", un fosco Andreotti fatto di sangue e ambiguità, come Coppola nel Padrino, quando il volto di don Vito (Brando) sbucava dalle tenebre. II regista costruisce con livido furore la ballata macabra che ha segnato la storia d'Italia. Sotto le maschere si agitano e muoiono personaggi veri, citati per nome. Forse il trucco, fra Nosferatu e il Bagaglino, che imprigiona il bravo Sorrentino, è troppo pesante; ma l'errore nasce da una scelta poetica. Solo le due donne del cuore sono rappresentate con dolente realismo. Ma l'anima (nera) del film è nella raffigurazione impura del Potere e delle sue vittime. "I migliori anni della nostra vita" sono stati un labirintico mattatoio. |
Claudio Carabba - Corriere della Sera Magazine |
cinélite
TORRESINO
all'aperto:
giugno-agosto 2008