Dogville
Lars von Trier - Danimarca/Svezia 2003 - 2h 30'


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da La Repubblica (Roberto Nepoti)

       Avremo ancora il coraggio di lamentarci del cinema? Ormai non passa settimana senza che escano film belli o interessanti, tanto da far scarseggiare il tempo e gli euro necessari per vederli. Però Dogville appartiene alla categoria "cinquestelle lusso": perderlo è vietato (pur col rammarico che la distribuzione lo abbia accorciato di 40'). Se film precedente in archivio von Trier film successivo in archivio ci stupisce a ogni film, non è mai così geniale come quando si aggira per il cinema della crudeltà: a qualcuno la sua rabbia potrà dare fastidio, ma si tratta di un fastidio salutare. E Lars è un genio cattivo. Basta vedere il modo in cui Dogville tra(sgre)disce le aspettative del pubblico; sia sul piano della storia, sia nel modo di raccontarla. Inseguita dai gangster, la dolce Grace giunge nel borgo sperduto di Dogville e trova la protezione dei tranquilli americani che vi abitano. In cambio, partecipa ai lavori della comunità. Dovrà subire una dura delusione: poco a poco i buoni samaritani cominciano a esigere da lei prestazioni in natura di vario genere, sottoponendola a oppressione psicologica, economica, sessuale secondo la logica del profitto cui anche i poveri sono devoti. Proprio in nome di tale logica gli abitanti del villaggio saranno puniti orrendamente, quando la nivea fanciulla deciderà di assumere il proprio ruolo sociale. Il soggetto sembra riproporre le eroine sacrificali dei film precedenti di von Trier, ma poi ne ribalta la personalità quando rivela la vera Grace. Il ribaltamento che sorprende di più, tuttavia, riguarda il linguaggio. Dogville si situa all'opposto di "Dogma", il manifesto del '95 dettato da Lars che ora, demiurgo volubile, dinamita le regole imposte prima. Invece di luoghi autentici e luce naturale, una scelta scenografica radicale dove gli spazi sono disegnati sul suolo come nel tabellone del Monopoli e rappresentano ambienti (le case, la chiesa, la scuola, i negozi, perfino la sagoma di un cane) disincarnati, privi di fisicità. Brechtianamente, il film è diviso in nove capitoli e un prologo e raccontato dalla voce di un narratore onnisciente. Sono gli strumenti linguistici di un nuovo corso, che l'autore chiama "cinema fusionale" (cinema+teatro+letteratura), funzionali alla realizzazione di un'atroce, magnifica parabola sui rapporti sociali. Circondandola di un grande cast, von Trier sfrutta al meglio il vero talento di Kidman: mostrare un viso d'angelo e far affiorare per gradi tutta la ferocia del personaggio. C'è da augurarsi che la "trilogia americana", concepita dal cineasta, prosegua con lei.

LUX - dicembre 2003