Giovanna d'Arco (The Messenger: The Story of Joan of Arc)
Luc Besson – Francia 19992h 41’

da FilmTv (Aldo Fittante)

Il nuovo kolossal dal "Luc" decisamente bessoniano esprime tutta la "grandeur" e la spettacolarità possibili reclamate dalla Francia sciovinista, ma finanziate con dollaroni yankee. Una pellicola, quindi, che paga esteticamente questo suo essere di nessuno se non di un pubblico "orwelliano" e che affascina e irrita, sviluppa suggestioni irresistibili e sfianca per la sua chilometrica durata. Un film davvero "alla Luc Besson", con la "klauskinskiana" Milla Jovovich complice devota come già capitò alla Nikita Anne Parillaud, che ha l'ambizione smodata di misurarsi con modelli del passato francamente ingombranti (da Dreyer a Rivette, da Ingrid Bergman a Sandrine Bonnaire) senza remore e paure.
Alcune sequenze entreranno di diritto nella storia del cinema guerriero e rimandano a
Braveheart, Kurosawa e all'Herzog di Aguirre, accompagnate dall'epica ed enfatica musica di Eric Serra e, alla fine, dai ringraziamenti - molto "jet set" - a Madonna, Sting e moglie, Kassovitz e Kounen. Un "d'Arc de Triomphe" che suggella, sforzandosi di trovare un'armonia sempre in bilico fra ricerca e moda, la storia di una donna che, anche dopo la visione dell'ennesimo film a lei dedicato, non riesce a sciogliere del tutto l'antico dilemma: santa o invasata?

da Sette (Claudio Carabba)

Nella campagna di Francia una fanciulla di nome Giovanna cresce, aspettando il suo destino. Il vento, che forse è la voce di Dio, la porterà lontano, sotto le mura di Orléans, dove Giovanna sconfiggerà gli inglesi e conquisterà una corona per il cauto Delfino. Ma la guerra (dei Cent'anni) continua: breve è la gloria terrena e il rogo è già pronto per lei, santa e strega. Luc Besson affronta la storia di Giovanna d'Arco secondo il suo stile, ricco e movimentato. Fra sangue e polvere, l'eroina (Milla Jovovich) corre senza fermarsi a riflettere. Solo nella tetra prigione dialogherà con la sua coscienza (Dustin Hoffman) ponendosi la grande domanda: qual è la linea che separa l'amore di Dio dal peccato d'orgoglio? Più che ai maestri che affrontarono la storia prima di lui (Dreyer Rossellini, Bresson) Besson sembra guardare al Medioevo di Polanski (Macbeth) e di Branagh (Enrico V). Il processo é un po' buttato via, ma il nucleo del film è animato da un epico vigore. E nel clamore delle spade si sente meglio il silenzio di Dio.

da Duel (Luciano Barisone)

Besson é sempre stato attratto dai corpi "contundenti" e dal loro rapporto con lo sfondo. Dal primo cortometraggio, che girò con Jean Réno (una scazzottata, dove ciò che contava non era il soggetto, ma la coreografia), al lungo d'esordio, che significativamente si chiamava Le dernier combat e si svolgeva sullo sfondo di rovine postatomiche; dall'onda sorda di Nikita, sopravvissuta al disastro e diventata, nel nulla invisibile della società di massa, una macchina per uccidere, alla coazione a ripetere di Le grand bleu, fatta di uomini in lotta che si stagliavano sull'azzurro intenso delle profondità marine; da Léon, corrispettivo romantico e frankensteiniano di Nikita, a Il quinto elemento, vero catalogo di fisicità conflittuali in perpetuo nomadismo. Giovanna d'Arco non si distacca da questo iter "dialettico" ed entra in scena dalla prima inquadratura con il suo carico di ossessioni e di energia visionaria: un carico reso esplosivo dalla compressione della sua sensualità sotto il macigno del misticismo e dalla sete di vendetta personale.
La pulzella bessoniana nasce - e si impone sullo schermo - sotto il segno della demistificazione, donna resa invincibile dall'isteria e dalla cocciutaggine, oltre che dall'attenzione interessata dei sovrani. Ormai del tutto partigiano dell'effetto speciale, del teleobbiettivo sparato in mezzo alla carneficina, dei dettagli "sanguinolenti" alternati alla retorica della composizione corale in campo lungo, Besson non ci risparmia nulla di tutto ciò che sappiamo dell'agiografia romanzata dell'eroina e delle varie versioni cinematografiche che l'hanno eletta a protagonista. A esse aggiunge piuttosto i particolari di una vulgata non ufficiale, che ci rivela il lato scomodo della Santa. Gli siamo peraltro grati di aver avuto il pudore di non rifilarci la sua versione del processo - cosa che lo avrebbe seppellito sotto il peso di, Dreyer - e di avere invece propeso per l'illustrazione dei dubbi di Giovanna: in una sorta di sguardo all'indietro che svela l'illusione di ogni visione mistica e la consegna, finalmente donna ed essere umano, al rogo.

da L'Unità (Alberto Crespi)

L'ennesima Giovanna d'Arco di celluloide pone, diciamo così, un doppio problema: quanto c'è di nuovo nella rilettura dell'eroina proposta da Luc Besson, da un punto di vista cinematografico e da un punto di vista storico? Messa in altri termini, la questione si riassume in due domande. La prima: è un bel film? La seconda: è un film serio, che potrà piacere non solo al pubblico che al cinema vuol vedere Guerre stellari o 007, ma anche a chi pensa, che Giovanna, e il suo folgorante passaggio nella storia, siano una cosa importante?
A costo di passare per rompiscatole, siamo convinti che la prima risposta dipenda dalla seconda. Giovanna d'Arco non è un bel film, nonostante la forte carica visionaria e spettacolare, proprio perché non è serio. O meglio: lo è in modo banale e supponente, come spesso capita ai registi francesi quando vogliono essere troppo «poetici». La chiave del film è tutta negli ultimi 40 minuti, quelli del processo. Ovvero, quando arriva Dustin Hoffman.. Non è colpa del grande Dustin sia chiaro. E colpa di Besson (e del suo sceneggiatore, l'inglese Andrew Birkin), che affida all'attore hollywoodiano il «personaggio» della Coscienza di Giovanna. Sola nella cella, la pulzella dibatte con questa figura incappucciata e barbuta, e si pone crucci filosofici sulla propria scelta, sulla violenza che ha provocato, sull'audacia di aver deciso - seguendo le famose «voci» - quel che è giusto e quel che è sbagliato. Ora, il problema non è di banale verosimiglianza: da approfonditi studi sappiamo che la gente, nel Medioevo, non concepiva la propria coscienza come possiamo far noi, figliocci di Freud, ma se Besson voleva dare una lettura psicoanalitica di Giovanna, liberissimo di farlo. Non, però, con una trovata drammaturgicamente ovvia, e in totale contraddizione con il resto del film. Perché la prima parte, in cui Giovanna investe la corte del Delfino Carlo di Valois con la forza delle proprie visioni, fino a farsi affidare il comando dell'esercito che caccerà gli inglesi da Orléans, è invece forte, diretta, fenomenologica. La ragazza si impone al re e alla corte semplicemente perché, nel Medioevo, poteva accadere: parlare con Dio era una cosa non frequente, ma assolutamente possibile. A dire il vero, la psicoanalisi fa capolino già qui: al posto della scena primaria teorizzata da Freud, c'è lo stupro-omicidio della sorella da parte della soldataglia inglese, lo shock dal quale sembrerebbe derivare il delirio (o la vocazione) di Giovanna. E anche questa è una scena fortemente banalizzante, senza contare la truculenza con cui Besson la gira (avrebbe fatto meglio a rivedersi l'assalto al villaggio nel primo
Conan di John Milius, che pure non è un regista dandy).
In poche parole, il film traballa, e sfiora il ridicolo, non appena Besson tenta di «spiegare» le cose, mentre funziona quando si limita a mostrarle: segnatamente nelle lunghe scene di battaglia, molto frenetiche e spettacolari. Milla Jovovich sgrana gli occhioni ed è decisamente troppo bella per il ruolo. Di Dustin Hoffman s'è detto, mentre John Malkovich (Carlo di Valois) è all'interno del suo cliché e Faye Dunaway (Iolanda d'Aragona) è se non altro coraggiosa nel farsi spettrale e tirannica come Bette Davis in Elisabetta d'Inghilterra.

scheda CGS marzo 2000
[Don BOSCO]