Gran Torino
Clint Eastwood – USA 2008 - 1h 56'

  Le prime notizie arrivate su Gran Torino parlavano di un film precedente in archivio Eastwood film successivo in archivio di pregio, però più semplice, più da "grande pubblico" del solito: non un capolavoro. Ma allora, da che cosa si riconosce un capolavoro? Intanto, la semplicità - quando è unita alla capacità di dire cose importanti - è un pregio, non un difetto. E Clint dice cose molto importanti con estrema, classica semplicità. Nel raccontarci la storia di Walt Kowalski, metalmeccanico in pensione reduce dalla guerra di Corea e fresco vedovo, convoca temi come il razzismo, il rapporto padri-figli, nientemeno che la capacità di amare. Interpretato da Clint, Kowalski è un misantropo che ringhia come un mastino, sta sempre a un passo dal suo fucile M-1, manifesta odio per i "musi gialli" che gli hanno invaso il quartiere. Eppure Walt sa amare, molto più dei suoi grassi e squallidi figli, bravi padri di famiglia americani cui il film riserva tutto il suo disprezzo. Diventato eroe per caso della comunità cinese, il vecchio solitario s' incaricherà dell' educazione - virile, sentimentale, al lavoro - di un timido adolescente asiatico, Thao, proprio quello che ha tentato di rubare la sua auto-feticcio, la Gran Torino del '72 centro simbolico della storia. Un grande romanzo di formazione, e in due sensi: non solo "cresce" il ragazzino, ma anche l' uomo al tramonto della vita. Kowalski consegna al ragazzo le chiavi per il mondo degli adulti, impara che si possono avere molte più cose in comune con i musi gialli della porta accanto che con i propri figli. Semplice ed epico, Clint è più eroico quando estrae un accendino (l'epilogo) di quando, giovane Callaghan, tirava fuori la sua 44 Magnum. Non basta? In un film che flirta di continuo con la morte, inserisce pause da commedia geniali. Come in tutti i tragici, in Clint alberga l'anima di un grande comico. Che occorre, ancora, per fare un capolavoro?

Roberto Nepoti – La Repubblica

  Una lezione di saggezza dall’ispettore Callaghan. Di saggezza, di tolleranza, di apertura. Dunque di politica. Proprio così: dall’alto dei suoi 78 anni l’ultimo grande classico del cinema americano classico per statura e per linguaggio ci consegna un capolavoro di lucidità e di coraggio. Cinematografico e personale. Si intitola Gran Torino, dal nome di un glorioso modello della Ford anni ’70 (lo stesso decennio di Callaghan). Ma il bello è che approda a conclusioni apparentemente lontane dal Clint Eastwood di una volta senza rinnegare nessuno degli ingredienti con cui ha costruito il suo mito. L’individualismo, il patriottismo, il senso della frontiera (dunque del diverso), la necessità non di farsi giustizia da soli, ma di essere giusti in prima persona. Perfino il ricorso alla forza, se occorre. Anche se la forza più grande, in tempi tanto oscuri, è quella di chi sa rinunciare alla violenza perché solo così può battere il “nemico”... Ma non anticipiamo troppo.
Gran Torino è innanzitutto un film, un magnifico film, come se ne vedono di rado. E va apprezzato come tale, per la maestria davvero musicale con cui Clint torna sui temi a lui più cari, precisandoli e ravvivandoli a colpi di invenzioni e sorprese continue. Con uno sguardo insieme desolato e autoironico che fa del ringhioso Kowalski, operaio della Ford in pensione nei sobborghi di Detroit, vedovo, veterano della guerra di Corea, un dinosauro che dice ancora “musi gialli” ai vicini asiatici e detesta i suoi stessi figli, arricchiti e rammolliti dal consumismo, uno dei suoi più bei personaggi di sempre. Anche perché, come in
Million Dollar Baby, dietro il roccioso Kowalski (nome da immigrato naturalmente) si nasconde proprio un padre, forse addirittura quel Padre ideale di cui si è perso lo stampo. Ma il primo a ignorarlo è lui, troppo occupato dalla sua rancorosa solitudine e da chissà quali fantasmi per dedicare attenzione a quei vicini asiatici rumorosi e disordinati. Fino a quando, ironia della sorte, dopo aver sventato fucile in pugno il furto dell’amatissima Gran Torino, l’ex operaio della Ford non si trova a difendere proprio il piccolo asiatico spedito a rubargliela da una gang di consanguinei che lo considera una femminuccia. È solo il primo scatto, ma indietro non si torna. Poco a poco il pensionato razzista e paranoico scopre che anche i suoi vicini asiatici, così numerosi, impenetrabili e non meno ostili di lui (esilarante il faccia a faccia di insulti a denti stretti che Kowalski e la vicina si scambiano dalla veranda, ognuno nella sua lingua), si portano dietro una cultura, una cucina, un codice di condotta, una religione. Un mondo. Diverso, attenzione, e irriconducibile al suo, ma per certi versi più vicino a lui di un’America irriconoscibile. Tanto che proprio dall’incontro con quegli asiatici, non cinesi, né coreani, né vietnamiti ma Hmong, un’etnia che vive a cavallo fra il Laos, la Thailandia e il Vietnam, nasce l’opportunità di rinnovare il patto su cui si fonda da sempre l’America. Che non consiste nell’integrazione forzata ma nel rispetto delle differenze, appunto, illuminato da una curiosità che è coscienza della potenziale ricchezza offerta da un tessuto sociale tanto eterogeneo.
Anche perché l’alternativa sono le gang rivali, come si vede anche in
Gran Torino. Qua i messicani, là i neri, là gli asiatici, etc. Mentre basta una bella scarica di sanguinosi ma amichevoli insulti razzisti, come quelli che Kowalski scambia ritualmente col suo barbiere, un italiano “maccheroni”, per stabilire quello schietto cameratismo che è il più efficace anticorpo a ogni deriva davvero intollerante (in questo le nostre periferie non sono seconde a nessuno, basterebbe andare a guardare e raccontarlo, anziché soffiare sul fuoco e organizzare le ronde). Quanto alla tentazione delle armi, che questo nipotino di Callaghan conosce e maneggia assai bene, anche qui c’è un antidoto, forgiato nello stesso metallo lucente. Sono gli strumenti custoditi nella sua curatissima rimessa, che “papà” Kowalski illustra pazientemente al giovane allievo Hmong. Lavoro contro violenza dunque, pazienza contro rabbia. Perché ci vuole tempo a riunire tutti quegli utensili, e altrettanto per imparare a usarli. E qui torna in mente il Primo Levi de La chiave a stella, altro testo dedicato alla “lingua universale” parlata dagli strumenti di lavoro. Curioso accostamento davvero, che dice tutta la portata, e la sorpresa, di Gran Torino.

Fabio Ferzetti - Il Messaggero

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Walt Kowalski, metalmeccanico in pensione, reduce dalla guerra di Corea e fresco vedovo (con due figli volgarmente scaltri), si trova unico «bianco» nel suo Middle West ormai pieno di asiatici. Razzista, il pensionato che ha lavorato alla Ford e conserva una mitica Gran Torino, diventa comprensivo e si fa giudice dei torti subiti da un ragazzino «nipote» putativo vittima di bulli. Clint torna sui temi a lui più cari, precisandoli e ravvivandoli a colpi di invenzioni e sorprese continue. E, con una maestria "musicale" e uno sguardo insieme desolato e autoironico, ci spiega che l'accettazione della società multirazziale non è frutto di ideologie, ma di una faticosa pratica quotidiana. Un film magnifico, come se ne vedono di rado.

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