Gli amici del Bar Margherita
Pupi Avati – Italia 2009 - 1h 30'

  Nel bel amarcord di Pupi Avati, sotto i portici bolognesi dell' Italia povera ingenua, ma bella, del '54 ante dolce vita, i suoi vitelloni amici del bar (tra cui un Casanova a zero intelletto) vivono by night, parlano con la voce della Luna e fanno bidoni. Chi sovrintende? San Fellini, certo. Avati, riapre il libro autobiografico delle jazz band, al capitolo nostalgia, ma con una dose di crudeltà in più, senza alcuna retorica. Il puzzle con situazioni divertenti e personaggi riusciti guarda il passato a debita distanza. Disillusione? Avati prende il meglio di Avati e ancora una volta dirige il suo clan di attori, nessuno escluso, in stato di grazia sociologica e soprattutto auto ironica. Tra i molti citiamo le due vittime, De Luigi illuso di andare a Sanremo e Neri Marcorè che manda a monte il matrimonio per l'entreneuse, ma il pomeriggio danzante con la salma è di culto.

Maurizio Porro – Il Corriere della Sera

  Come molti registi prolifici, Pupi Avati sembra fare i film a due a due. Ogni titolo della sua ricca filmografia ne ha (almeno) un altro più o meno gemello. Ogni volta che sceglie un mondo, un punto di vista, un sentimento, sente il bisogno di riprendere il discorso da un angolo o con un tono diverso. Così Gli amici del bar Margherita è quasi il "gemello", o meglio il rovescio, di Ma quando arrivano le ragazze, una delle sue commedie corali più interessanti e sottovalutate. Là infatti gli anni 50 della sua adolescenza venivano camuffati da presente, con effetto straniante e sottilmente inquietante. Qua la Bologna del 1954, con la sua inesauribile galleria di tipi buffi e simpatici idioti ("gli eroi sciocchi" li chiama Avati), diventa il motore di una memoria tutta privata che sceglie e deforma, sfuma ed esalta, completa e ricrea. Seguendo un disegno apertamente nostalgico ma anche sottomesso fino in fondo al gioco dell'immaginazione.
Gli antipatizzanti diranno che il regista emiliano si ripete, che è regressivo, non giudica, non sceglie, si limita a rievocare e probabilmente abbellire quei personaggi, le loro vite, la loro mentalità oggi superata (ma ne siamo così sicuri?), senza aprire nuove prospettive nemmeno alla luce della distanza storica. Chi sta al gioco apprezzerà queste variazioni sul tema senza troppe pretese per il senso dei dettagli, il brio del racconto, l'affiatamento del cast. E soprattutto la coesistenza beffarda di sorriso e crudeltà che inchioda ogni personaggio alle sue piccole ossessioni, alle sue patetiche incapacità, o a un destino segnato dal gusto misogino e goliardico per la bravata.
Non a caso l'alter ego del futuro regista, l'Io narrante Taddeo (l'intonatissimo Pier Paolo Zizzi, una scoperta), pur subendo il fascino di questo gruppo di vitelloni prende le distanze prima che sia troppo tardi. Troppo facile, forse. In fondo I vitelloni di Fellini, appunto, diceva già tutto nel 1953, con una poesia e un senso del tragico che Avati non tenta nemmeno lontanamente di emulare. Però in fondo a questo catalogo di tipi da bar e imprese derisorie, le notti misteriose dell'ineffabile Abatantuono, l'avventura sanremese del povero De Luigi, la "linfomania" del siciliano Lo Cascio, le nozze sciagurate dell'autistico Marcorè, i modi sapienti dell'entraineuse Chiatti, le consolazioni poco musicali del vedovo Cavina con la maestra di piano Luisa Ranieri, si può leggere la quieta disperazione, la noia da oratorio, la blanda erotomania di un'Italietta che usciva appena dalla ricostruzione e si affacciava timidamente ai primi segni di benessere costruendo i suoi sogni con materiali autarchici, ipocrisie provinciali, trasgressioni meschine. Si può trovare questa prospettiva angusta, compiaciuta addirittura complice. Ma ognuno ha i suoi "mostri". E i suoi Avati se li è scelti da tempo. In tutta coerenza.

Fabio Ferzetti - Il Messaggero

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La Bologna del 1954, con la sua inesauribile galleria di tipi buffi e simpatici idioti diventa il motore di una memoria tutta privata che sceglie e deforma, sfuma ed esalta, completa e ricrea. Avati, riapre il libro autobiografico delle jazz band, al capitolo nostalgia, con una dose di crudeltà in più e con ben poca retorica. E il gioco funziona ancora una volta, con i suoi limiti, ma anche con la sua inossidabile, divertita capacità di coinvolgimento.

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