2004

Lisbon Story
Wim Wenders - Germania/Portogallo 1995 - 1h 45'

    Philip, professione fonico, arriva a Lisbona, chiamato dall'amico regista Friedrich che sta girando un documentario muto e in bianconero. Trova solo una casa vuota e le pizze del materiale girato. A spasso per Lisbona, in cerca di suoni e di notizie dell'amico, l'alter ego-wendersiano porta lo spettatore a catturare la realtà viva della città portoghese. Ma per essere cinema, le immagini filmate hanno bisogno della partecipazione dell'autore, dell'innesto verace delle musiche dei Madredeus... (e.l.)


Soggetto
Sceneggiatura
Fotografia
Suono
Musiche
Montaggio
Scenografia
Effetti
Produzione
Distribuzione

Wim Wenders
Wim Wenders
Lisa Rinzler
Vasco Pimentel
Jürgen Knieper-Madredeus
Peter Przygodda, Anne Schnee
Maria Jose' Branco
Jaime Brito
Road Movies Filmproduktion
Mikado

Cast

Rudiger Vogler
Patrick Bauchau
Teresa Salgueiro
Pedro Ayres Magalhaes
Ricardo Colares
NElisabete Cunha Rocha
Vera Cunha Rocha
Sofia Benard Da Costa
Manoel de Oliveira

Phillip Winter
Friedrich Monroe
se stessa
se stesso
Ricardo
Julie
Vera
Sofia
se stesso

da Cineforum (Federico Chiacchiari)

     Tra suoni immagini colori sguardi e commozioni Wenders comunica "totalmente" il suo cinema, fatto di tutti i sensi possibili, mixati in un concentrato di riflessione, teoria, emozione, passione, deliberata dichiarazione d'amore, per il cinema, per la vita. [...] Dunque tutto nasce su commissione, che meraviglia! Come a Hollywood! O come in Francia per la splendida serie Tous les sarcons. Un documentario su Lisbona. È, per Wenders, il piacere di tornare sul luogo dove girò Lo stato delle cose. Cinema come piacere di girare, appunto, come prima, il mondo, la pellicola, le idee, ecc... È poi trasformare il tutto in un super-appunto su vita, calore, musica, suoni, luci, cinema. Cioè trasformare un documentario su una città, bellissima, Lisbona, in un film, in cui la città pulsa nei fotogrammi, nel vagare di Phillip Winter/Rudiger Vogler Nel corso del tempo come Alice nella città, Fino alla fine del mondo... Wenders adora e rispetta le sue città. Le vive tanto intensamente da farle sue, immagazzinandone gli umori, trattenendone i respiri, i fruscii, vi si immerge completamente. È forse questo suo essere continuamente "straniero in terra straniera" che gli fa avere questa attenzione, quasi devozione per ciò che non gli appartiene ma a cui vorrebbe appartenere. Egli sa bene che in questo suo peregrinare in giro per il mondo non è più di nessun luogo ormai. Oppure di tutti, splendido cineasta apolide, cosmopolita, eppure così intimamente "europeo", così legato a doppio-triplo filo con la cultura millenaria di una "nazione" incompiuta, eppure ormai tanto "unica" («cambiano le lingue - dice Phillip - la musica, le notizie sono diverse... ma i panorami parlano lo stesso linguaggio, raccontano tutti le stesse storie di un vecchio continente pieno delle sue guerre e delle sue tregue...»). Tutto parte dalla città, per finire, come sempre, con il cinema. Ma il cinema e la città moderna sono legati l'un l'altra, e l'uno non avrebbe senso senza il respiro profondo dell'altra [...]
Wenders ci parla di cinema, visione, di una città magica, ma non rinuncia a mettere in scena il fulcro, da sempre, del suo cinema. L'amicizia per Friedrich "smuove" Phillip verso Lisbona, nonostante abbia un piede ingessato e difficoltà di movimento. L'amore per la bella Teresa lo tratterrà in città, nonostante la sua presenza sia "inutilizzata" da Friedrich, perduto tra i mille rivoli di una città magica. E nella splendida scena dell'incontro con i Madredeus (che non sono una scoperta wendersiana, essendo da tempo nei primissimi posti della hit-parade portoghese - merito di Wenders comunque averli "mostrati" al resto del mondo...), che possiamo vedere la "lezione" del cineasta di Düsseldorf. La dolce melodia proviene da lontano e Phillip la insegue per i corridoi, fino a "trovarla" in una stanza spoglia, dove il gruppo sta suonando Guitarra. Winter la ascolta, affascinato. Splendidamente Wenders non "taglia" o "dissolve" la canzone, ma ce la restituisce nella sua interezza, meraviglioso atto di devozione e al contempo di rispetto per la musica, in un'epoca dove il frammento regna sovrano, e dove ormai le canzoni sono dei piccoli jingle raccolti dentro spot televisivi. Ma Wenders va oltre e, quasi provocatoriamente, ci invita all'ascolto - totale - di Ainda, 10-15 minuti di film-musica integrale, che travolge le passioni di Phillip e dello spettatore. Non c'è bisogno di "mostrare" oltre, per capire il fascino delle emozioni: i sentimenti esplodono lì, in un attimo, dentro/attraverso una canzone, mentre i suoni, la voce di Teresa e gli sguardi di Winter si perdono e si confondono. [...]
Tutto il film è costruito sull'assenza. Sull'assenza di Friedrich, su quella del suono nelle immagini da lui girate. E sul suono, il lavoro di Phillip, in un vortice metaforico/teorico pazzesco: musicare immagini girate "mute" con una vecchia cinepresa degli anni Venti. Phillip non si perde nel pasticcio teorico del suo amico regista e vagabonda per la città alla ricerca dei rumori "assenti" nelle immagini registrate da Friedrich. Il quale gira immagini mute con l'aiuto di un bambino muto. Fino a che Phillip inciderà un silenzioso "suono dell'assenza di Friedrich", quasi a spezzare il vizioso circolo in cui si stava cacciando. «Io ascolto senza guardare e così vedo» scrive Pessoa e Wenders aggiunge: «Lo scopo di questo film è stato quello di dimostrare che i suoni aiutano a vedere le cose in modo diverso». E Phillip ci mostra, con l'aiuto dei bambini, quello che il suono può farci vedere attraverso l'immaginazione. Nostalgia di immagini che raccontavano più di quello che mostravano, di un cinema capace di andare oltre la "visione". Ma anche riflessione sulla pratica cinematografica dei nostri tempi. Ancora Wenders: «Oggi il suono ha un peso che non aveva in passato. Attualmente qualsiasi film che abbia bisogno di una post-produzione in stereo impegna diversi mesi perché il lavoro sul suono sia completato. Quindici o venti anni fa erano sufficienti quattro mesi per il montaggio e un paio di settimane per il sonoro; oggi, al contrario, il montaggio si effettua in un paio di settimane e il sonoro richiede mesi e mesi di lavoro...».

da Il Giorno (Morando Morandini)

     In Lisbon Story conta anzitutto la colonna sonora e musicale. Diciamo subito che, affidata al quintetto dei Madredeus, la musica nel film e sul film è una componente importante del piccolo fascino. Fin troppo, direi. Non soltanto attraverso Teresa Salgueiro, la giovane cantante del gruppo (voce purissirna, luminosa, bellezza bruna), Wenders ha insinuato una delicata dose di "romance" nella storia, ma, a scapito del ritmo narrativo, s'è arrischiato a mettere in fila due esecuzioni. I Madredeus fanno una musica inconfondibilmente portoghese, ma non triste, con poca "saudade", solare più che notturna La colonna sonora? Esistono almeno due precedenti illustri di film, entrambi thriller, che hanno al centro la figura di un tecnico del suono (un affascinante Coppola: La conversazione - 1974, e un buon De Palma: Blow Out - 1981), ma, a memoria nostra, è la prima volta che un fonico è protagonista di un film. Giacché i riferimenti a un capolavoro di Buster Keaton (The Cameramen, 1928) sono espliciti anche con un divertito omaggio finale, Lisbon Story poteva intitolarsi "The Soundman".
Più che una storia, c'è una situazione. Chiamato a Lisbona dall'amico Friedrich che, nel soprassalto romantico di ripartire da zero, vi sta girando un documentario muto e in bianconero, il fonico Filippo Inverno, pardon Philip Winter, arriva sulle rive del Tago, ma trova una casa vuota l'amico Fritz s'è dileguato. Rimangono soltanto le pizze del materiale girato e al perplesso Philip non rimane che andarsene in giro per Lisbona, antica e nuova, a registrare suoni, fare incontri ascoltare la musica dei Madredeus e innamorarsi della loro cantante. Più pretestuoso che allarmante, un esile filo di "suspence" tiene sulla corda per novanta minuti lo spettatore fino all'apparizione del regista scomparso che da luogo a una breve baruffa verbale di taglio ontologico sul cinema e sul suo futuro, e all'ilare finale.
Lo dice lo stesso Wenders, e non si può non essere d'accordo:
Lisbon Story è il film più divertente che abbia fatto: semplice diretto, leggero e decontratto. Rispetto ai suoi ultimi film cosi gonfi e ambiziosi un po' ferruginosi è come se Wenders -cinquant'anni - fosse tornato indietro, alle sue origini. Lo si vede anche dallo spazio concesso ai bambini dalla brezza di giuoco divertito che lo attraversa, non senza tratti di autoironia. O ha soltanto cambiando direzione?
Come
Nella città bianca (1983) dello svizzero Tanner, il suo è film su Lisbona con un largo margine d'improvvisazione: il basso costo concede una maggiore libertà di manovra. E' un film sul cinema e sul centenario del cinema attraverso il filtro della cultura portoghese, quella di ieri (l'omaggio a Fernando Pessoa «Nella piena luce del giorno/anche i suoi splendono») e quella di oggi con monologo di Manoel de Oliveira, classe 1908, patriarca sempreverde del cinema lusitano, che si concede il vezzo di una saltellante uscita charlottiana. Lisbon Story è pure una riflessione teorica sul cinema, sul rapporto tra immagine e suono («...l'illusione che i tuoi microfoni potessero strappare le mie immagini alle loro tenebre...»), tra pellicola e video, tra verità e menzogna, sull'opposizione -che da sempre ossessiona Wenders- tra cinema americano e cinema europeo, tra un cinema delle storie e un cinema dello sguardo: il dominio delle storie soffoca il racconto delle cose, ma senza storie lo sguardo s'inaridisce...

TORRESINO ottobre-dicembre 2004