videopolis        SPAZIO CINEMA  a cura di Ezio Leoni

     Qual è il suono cinematografico della città? Il rumore del suo pulsare metropolitano? Il sussurrare leggero di borghi e quartieri? Il silenzio incombente di stanze desolate, di anfratti misteriosi? O è invece quella musica la cui “colonna” ne carpisce l’essenza, ne esalta il senso delle immagini, ne descrive una originale (sincrona/asincrona) architettura melodica?
Ogni situazione, ogni ipotesi rimanda a sequenze di personale memoria, a frammenti di un immaginario filmico che è collettivo , ma è anche di privatissima, appassionata citazione. Così le due pellicole in rassegna fanno solo da iceberg ad un sommerso sfaccettato e composito.
Se
Marathon è frastornante e ossessivo, fotografia-sonora iperreale di una ragnatela urbana che collega il rombo della metropolitana e dei suoi treni all’incessante brusio delle tubature idrauliche, Lisbon Story è ricerca autoriale e citazionistica di una sonorità cosmopolita che riempia le forme e i personaggi, il senso dell’esistenza e le trame del vivere.
Tra lo sferragliare delle rotaie e le soavi canzoni dei Madredeus, il loro impatto sullo schermo ben rappresenta il paesaggio sonoro in oggetto, ma le stimolazioni cinefile vanno ben oltre. Paradossalmente è l’evocazione “muta” di opere come
L'uomo con la macchina da presa (Dziga Vertov) e Aurora (Friedrich W. Murnau) a fornire le prime suggestioni “in tema”, ma già in quegli anni le partiture degli accompagnamenti portavano ad un protagonismo “armonico” e non “rumoristico” del sonoro: per Metropolis di Lang si ricorse ad una composizione di Gottfried Huppertz a cui seguì, nella riedizione del 1984, una versione rock-pop di Giorgio Moroder, in Berlino - Sinfonia di una grande città le musiche di Edmund Meisel sono un tassello essenziale nella sinfonia visiva astratta di Walter Ruttmann.
Varcata la soglia del cinema sonoro ci imbattiamo ancora in Fritz Lang e nell’angoscia urbana del suo M, il mostro di Dusseldorf (1931). L’incalzante fischiettare del suo assassino va ascritto nel suono d’ambiente o considerato uno stralcio di colonna musicale (il tema è tratto dal Peer Gynt di Grieg)? Nell’affresco urbano l’amalgama tra sonorità del quotidiano e partiture musicali sublima la narrazione stessa, dà suggestione alle singole sequenze, dilata il respiro armonico del tutto.
Se
Marathon è un punto d’arrivo di un reale catturato anche nell’essenzialità del suono, sulla stessa lunghezza d’onda viaggiano il dramma dell’11 settembre immortalato su schermo nero da Alejandro Gonzaléz Inarritu e l’isteria da terrorismo che agita il microfono (e la videocamera) di Paul in La terra dell’abbondanza (Wim Wenders - 2004). Microfoni e registratori pronti a carpire l’aere sonoro dell’ambiente, della città e dei suoi protagonisti, nastri saturi di suoni e di informazioni sconvolgenti costituiscono il tessuto connettivo di La conversazione (Coppola - 1974) e di Blow Out (De Palma - 1981): il primo estremizza, fino alla follia, il gioco-complice dell’intercettazione, le responsabilità dell’investigare nel privato altrui; nel secondo il mestiere del rumorista cinematografico assurge a ruolo determinante per scavare sotto l’apparenza delle notizie e sotto l’impermeabilità del proprio cinismo professionale.
E, nell’immergersi in una prospettiva “d’ascolto” di spazi e ambienti, come non citare l’impalpabile atmosfera di
Dans la ville blanche (ancora Lisbona!) rarefatta, anche a livello sonoro, nella regia di Alain Tanner (1982), le suadenti note del paesaggio umano di Terence Davies (Il lungo giorno finisce) e Franco Piavoli (Al primo soffio di vento) o, all’estremo, la sessualità autodistruttiva di Crash (Cronenberg – 1996), cadenzata dall’ansimare dei corpi e dallo schianto dei veicoli?
Con Wenders a fare da ponte stilistico tra la ricerca di una realtà urbana descritta per frammenti sonori (i citati Lisbon Story e La terra dell’abbondanza) e l’impatto di un commento musicale autonomo e dirompente (da
Fino alla fine del mondo a Million Dollar Hotel), l’approdare alle partiture jazz di Ascensore per il patibolo (1957), Taxi Driver (1976) e La 25a ora (2002) corrisponde all’immergersi nel background più verace della metropoli americana. Proprio il film di Spike Lee diventa l’emblema di una città (New York) che si può rappresentare “esternamente” con immagini canoniche (l’urbanizzazione dell’East Side), ma che si può descrivere interiormente solo grazie alla lacerante orchestrazione con cui Terence Blanchard contrappunta ogni immagine, ogni situazione, ogni relazione interpersonale. Ascoltare la sua ipertesa tessitura musicale è ascoltare, per complementarietà, il silenzio esistenziale di una nazione in crisi di democrazia e d’identità. La partitura sonora di La 25a ora si rivela uno splendido requiem moderno che, in perfetta sintonia con lo script di Spike Lee, assurge a incombente monito di un disagio civile sempre più profondo.
Un discorso a parte meriterebbe tutto il panorama del noir e del musical, le dediche d'autore, da Truffaut (l'apertura su Parigi de
I 400 colpi, col tema di Jean Constantin)  ad Allen e al suo amorevole tocco (anche musicale) nel dipingere Manhattan, così come si potrebbe individuare un ardito percorso, in movimenti di macchina e interpunzioni jazzistiche tra i grattacieli della Grande Mela (si vada a ripescare, ad esempio, la sequenza di apertura di Gloria di Cassavetes, 1980); ma come dimenticare la simbiosi tra architettura esistenziale, urbanistica e musicale (Wim Mertens) de Il ventre dell’architetto di Greenaway, la struggente melodia di Peer Raben che accompagna il peregrinare di Franz Biberkopf nel melodramma fassbinderiano Berlin Alexanderplatz (1980), l’ossessivo ripetersi di immagini e suoni nei movimenti “sinfonici” di Godfrey Reggio e Philip Glass in Koyaanisqatsi (1983).
Dai fiati sofferti di Miles Davis e Terence Blanchard al sax arioso e classico di Jimmy Doyle–Robert DeNiro in
New York, New York (Martin Scorsese - 1977) il passaggio è tale da allargare la prospettiva dalle sonorità degli strumenti alla forza evocativa della voce e delle canzoni. New York, New York “esplosa” da Liza Minnelli è un momento topico, ma non è da meno, più soffusa e romantica, la Moon River che accompagna Audrey Hepburn e il suo croissant davanti alle vetrine ingioiellate della 5a strada (Colazione da Tiffany - 1961) o la documentary-song di Bruce Springsteen in Philadelphia (Streets of Philadelphia - 1993).
Resta spazio per alcune chicche che vivono d’attualità (l’invadente colonna sonora di
Collateral), di ironia tecnologica (i cellulari logorroici di Hello Denise), di un epitaffio beat (Let it be, con il concerto dei Beatles sul tetto degli studi di Abbey Road), di brutalità d’autore (i rantoli nell’omicidio in Decalogo 5 di Kieslowski), di fantascienza languida e straziante (il tema di Vangelis per Blade Runner), di disperazione adolescenziale (l’incipit assordante della fuga di Lilja 4-Ever per le strade svedesi), di fascinazione compositiva (il concerto di Hermann nelle viscere della sua Schabbach in Heimat-episodio 11).
Ma ci piace chiudere con la lievità dell’animazione disneyana. In
Fantasia 2000 la Rapsodia in blu di Gershwin ricrea, con la direzione sinfonica di Eric Goldberg e la creatività grafica di Hal Hirshfeld, una Manhattan anni '20, stilizzata in un originale turbinio urbano, tra astrattismo e caricatura. In Music Land di Wilfred Jackson prende corpo un’appassionante sfida a suon di musica (Frank Churchill-Leigh Harline-Bert Lewis). Da una parte il Paese della Sinfonia, dall’altra l’Isola del Jazz. Ogni attacco è una sfolgorante orchestrazione, ogni bordata un assolo di strumenti che si animano con la vivacità immortale delle scuola Disney. Il paesaggio sonoro si delinea e si distrugge nella pimpante tradizione delle Silly Simphonies. Era il 1935 e, nell’utopia di una pace duratura, si poteva serenamente scherzare al ritmo di musiche e battaglie. Oggi nella spianata del Ground Zero ciò che si anima sono, tristemente, ruspe e scavatori. Il suono urbano per il nuovo millennio non ha l’allegra frenesia di Music Land, ma il mesto rimbombo della sinfonia de La 25a ora.