Melinda e Melinda (Melinda and Melinda)
Woody Allen - USA 2004 - 1h 39'


sito ufficiale

da La Repubblica (Roberto Nepoti)

     Si sa, esistono due Woody Allen. C'è il Woody comico, (già) maestro della gag e della commedia sofisticata, e c'è l'Allen drammatico, esistenziale, bergmaniano. Il che non esclude affatto che l'uno possa sconfinare nei territori dell'altro; come nel bellissimo Crimini e misfatti. In Melinda e Melinda, la doppia personalità assume forma quasi saggistica. Una sera, al ristorante, un drammaturgo e un commediografo disquisiscono su un argomento vecchio almeno quanto Aristotele: comico e tragico sono una questione di punto di vista, due convenzioni opposte applicabili allo stesso contenuto narrativo. Così, cominciano a raccontare le vicende di una biondina chiamata Melinda, che si presenta - inaspettata - a casa d'amici, durante una cena. Salvo che raddoppiano: a una Melinda capitano cose incasinate, ma positive e a lieto fine, mentre il suo alter-ego è destinato maluccio. Ciò cui Woody intende arrivare, tuttavia, è un'altra cosa, neppure questa nuovissima. E cioè che sorriso e dramma fanno parte dello stesso menu (la vita): non si può avere l'uno senza assaggiare l'altro. Pur impartita con leggerezza, la lezione pecca per eccesso di zelo didattico. Mentre gli attori che interpretano l'entourage di Melissa cambiano (per evitare confusioni?), le situazioni si ripetono simmetricamente: due coppie che si sfasciano, due relazioni con altrettanti pianisti per le Melisse e così via; onde ribadire che è il "tono", non la sostanza del racconto, a variare. E' la stessa, invece, la protagonista Radha Mitchell, deliziosa nevrotica capace di dar punti a Diane Keaton e Mia Farrow. Ma Radha è la parte migliore del film; un Woody minore, poco motivato, che si fa sostituire in scena da una controfigura (Will Ferrell, "allenizzato" in modo inbarazzante dal doppiaggio) e le mette in bocca battute fiacche ("ho sognato di stare con Melinda, poi di essere processato a Norimberga"), che un tempo sarebbero finite nel cestino.

da La Stampa (Lietta Tornabuoni)

     Spiritoso e malinconico, triste, incantevole e melodioso, Melinda e Melinda di Woody Allen conferma la gran bravura del regista e rivela minore vitalità, la sfiducia della routine, una stanchezza. Una sera a cena a New York, due autori di teatro (uno è Wallace Shawn, protagonista de La mia cena con André, il film-conversazione di Louis Malle) discutono con i loro amici intorno a un interrogativo cretino: la vita è una commedia o una tragedia? Per rendere meno astratto il discorso inventano un personaggio doppio, Melinda, e lo conducono lungo percorsi opposti e paralleli. Le disavventure dell'infelicità e le peripezie della fortuna, o l'esistenza comica e quella drammatica della ragazza immaginaria s'intrecciano e finiscono per assomigliarsi molto: «Sono cose che succedono. La vita è un pasticcio». È la New York di Woody Allen, luogo dell'anima: Manhattan, Soho, Greenwich Village, Upper East Side, strade alberate, taxi gialli, cafés e bistros alla francese a lume di candela, feste con gli ospiti seduti sulle scale del salotto a chiacchierare, sale di registrazione, corse di cavalli, ragazze scontente di sé, Central Park, edifici logori ma belli, scalette, portoncini, occhiali scuri, ma neppure una immagine che ricordi la città dei precedenti film oppure le Torri abbattute nel 2001. La luce di questo paesaggio-palcoscenico è dorata e autunnale, nello stile prediletto dal regista e dal direttore della fotografia Vilmos Zsigmond (Incontri ravvicinati del terzo tipo, Il cacciatore): ruggine, bruno, marrone, nocciola, color castagna. La protagonista Melinda, ragazza nevrotica, confusa, aspirante suicida, molto carina, bionda, sottile, Radha Mitchell nata e cresciuta a Melbourne in Australia, è un personaggio scritto davvero molto bene (Woody Allen è pure soggettista e sceneggiatore del film); Chloe Sevigny, ragazza deliziosa qui dominata da una durezza da kapò, è la più brava, mentre il più bravo è Chiwetel Ejifor, attore di colore, musicista seducente, dolce e doppio; il ragazzo che interpreta la parte che un quarto di secolo fa sarebbe stata destinata a Woody Allen, è appunto un sostituto. Tutto il gruppo degli interpreti è accomunato e amalgamato da un fitto chiacchiericcio, da un sovrapporsi di frasi, risate, battute, esclamazioni così tipico del nostro tempo e così privo di significato. Woody Allen adesso ha settant'anni, è autore di oltre trenta opere: una grazia brillante nutre il film parodia di se stesso, elegante, bello, stanco.

da Film Tv (Enrico Magrelli)

     Che la vita delle persone sia una messa in scena attorcigliata e che il mondo non esista che come infinita rappresentazione sono due dei temi costitutivi e fondanti del cinema e della scrittura di Woody Allen. Si potrebbero citare numerosi ed eterogenei esempi presi in prestito dai suoi film delle varie epoche. Recitare la vita, per i suoi personaggi, è un compito da svolgere, un problema con molte operazioni interdipendenti da risolvere (spesso il foglio viene consegnato in bianco) e quella recita è parte dell’inimitabile, euforica e disforica ricerca di Allen per ingannare il tempo che passa e per rallentare l’incontro finale con il nulla grazie ad una battuta e un raggiro del senso e del comune sentire. Nei suoi film si incontrano, di frequente, persone che scrivono e inventano storie. D’altra parte i passaggi metanarrativi della sua comicità appartengono al suo repertorio espressivo più genuino. In questo divertente e amaro, tagliente e sconsolato, serrato e rilassato, sagace e semplice doppio film o intreccio bifronte, due scrittori seduti al tavolo di un ristorante newyorkese (la città è il “borgo natio”, la culla dinamica, seducente e ovattata del pessimismo cosmico dell’autore) si sfidano nel raccontare le traversie di Melinda (una trepida Radha Mitchell), l’ultima incarnazione alleniana delle confusioni e dei perenni smarrimenti femminili. I tormenti d’amore e l’inadeguatezza alla felicità dell’eroina metropolitana sono modellati dagli stereotipi del dramma e da quelli della commedia. Rapporti di amicizia e di vicinato, incontri e guai, serate romantiche e sorprese, bistrò e divani, corteggiamenti e gelosie, singole parole e frasi intere, sguardi e percezioni possono, contestualizzati in generi narrativi contrapposti, commuovere o far ridere. La sostanza di quello che si vede o si ascolta dipende dalla forma e nella vita reale è il linguaggio a esprimere paure ed ansie, ricordi e pulsioni. Lo sviluppo delle vicende di Melinda segue un plot preordinato da una tradizione della scrittura creativa, da un’economia millenaria delle maschere e dalla speciale opzione che ognuno di noi possiede: volteggiare per il mondo o impegnarsi in un combattimento all’ultimo sangue con il mondo stesso. Woody Allen sa quali attori convocare su un set (qui si integrano benissimo all’impresa, soprattutto Will Ferrell e Chlöe Sevigny) e si muove tra i due registri narrativi con una perizia, una sicurezza e un’intelligenza che non stupiscono più, ma che è scriteriato trattare con sufficienza (soprattutto quando si vedono in giro sceneggiature sfiatate e vuote). Guardando il film si sorride spesso, si pensa ogni tanto, si prende coscienza di essere in scena anche se stiamo in platea. Le assonanze con Sliding Doors e Smoking-No Smoking sono abbastanza aleatorie.


LUX - gennaio 2005