Mille miglia... lontano (Qian li zou dan qi)
Zhang Yimou - Hong Kong/Cina/Giappone 2005 - 1h 47'

da Il Messaggero (Fabio Ferzetti)

        Per recuperare i rapporti col figlio malato, un anziano padre intraprende un lungo viaggio che si rivelerà fitto di incontri e di insegnamenti. Sembra la trama di una fiaba e in certo modo lo è. Ma portando ad oggi un episodio del nipponico Romanzo dei tre regni, Zhang Yimou scavalca lo spunto letterario per consegnarci una toccante meditazione sul rapporto fra le generazioni e fra i mondi. A mettersi in viaggio per esaudire l'ultimo desiderio del figlio, studioso di arti popolari cinesi, è il taciturno Takata (Ken Takakura, mito del cinema giapponese), che parte alla volta della remota regione dello Yunnan per ritrovare il cantante d'opera tanto ammirato da suo figlio e filmare una certa canzone. Gli imprevisti naturalmente si susseguono ma ogni volta, fra carceri e uffici, interpreti e funzionari, altri padri e altri figli abbandonati, il padre scopre qualcosa, dentro e fuori di lui. Perché la Cina, almeno secondo Zhang Yimou, è vasta quanto ospitale, i cinesi rustici ma sensibili. E malgrado le distanze linguistiche, fra quel giapponese dotato di ogni possibile gadget elettronico e quei contadini quasi medievali si stabilirà un contatto, anche fisico, prezioso e commovente. Specie quando Zhang non calca troppo la mano sul mélo (succede verso la fine) ma ci sorprende usando volti, paesaggi, sentimenti con francescana semplicità.

da Il Corriere della Sera (Paolo Mereghetti)

        Applaudito per le sue forti invenzioni cromatiche e per una melodrammaticità ai limiti del formalismo, dagli esordi di Sorgo rosso (1987) e Jou Dou (1990) fino ai più recenti e stilizzati film in costume (Hero, 2002, e La foresta dei pugnali volanti, 2004), Zhang Yimou ha sentito il bisogno ogni tanto di dirigere opere più intimiste e meditate, lontanissime dalla spettacolarità rutilante dei suoi film più applauditi. Se non più personali certamente più riflessivi e meditati, dove l' attenzione è puntata, in maniera più «didattica», su temi intimi e privati. Succedeva per La storia di Qiu Ju (1992), Non uno di meno (1998), l'ingiustamente «dimenticato» La strada verso casa (2000), succede per il sorprendente, e commovente, Mille miglia... lontano (in originale Quian Li Zou Dan Ji, che letteralmente significa «Cavalcando da solo per migliaia di miglia» e richiama il verso di una canzone classica, dove si racconta il viaggio fatto da un generale per aiutare disinteressatamente un amico). Il film racconta il percorso di riflessione che compie il giapponese Gou-ichi Takata (Ken Takakura, già al fianco di Michael Douglas in Pioggia sporca di Ridley Scott), quando scopre che il figlio, con cui non ha più rapporti da anni, sta morendo. Fallito un primo tentativo di riconciliazione tentato dalla nuora (Terajima Shinobu), il padre decide che l' unico modo per testimoniare l' affetto che non ha mai saputo manifestare è quello di portare a termine la ricerca sul folclore della regione cinese di Yunnan, di cui il figlio era diventato un grande studioso. Durante il suo ultimo viaggio non era riuscito a registrare l' esecuzione di un'opera popolare? Takata parte per la Cina deciso a riprendere quello che la malattia ha impedito di fare al figlio. A questo punto del film diventa evidente la ragione per cui il protagonista è, curiosamente, un giapponese. Perché uno straniero può funzionare da catalizzatore delle tante contraddizioni e arretratezze con cui ancora si confronta la società post-maoista. E perché a uno «straniero» si possono attribuire pensieri e riflessioni che forse il regime non accetterebbe se detti da un indigeno. Il protagonista, infatti, che non parla cinese ed è costretto a servirsi di un' interprete (Wen Jiang), non solo deve affrontare una serie di problemi e contrattempi (il più complicato: l' unico cantante che conosce quella vecchia opera è finito in prigione) ma si trova a rivivere per interposta persona il nodo dei rapporti padre-figlio e la difficolta di esprimere il reciproco affetto. Dopo essere riuscito, infatti, a ottenere a fatica il permesso di registrare in prigione l' opera, Takata scopre che il cantante-detenuto (Li Jiamin) non riesce a concentrarsi e a eseguire i complicati vocalizzi perché preoccupato della sorte del proprio figlioletto (Qiu Lin). Costringendo il visitatore giapponese a rinviare ancora una volta la registrazione per scoprire in prima persona come se la cava il piccolo. Più complicato a raccontarsi che a vedersi, il film diventa così un coinvolgente gioco di specchi, dove lo spettatore riflette sulle scelte affettive del padre giapponese che si preoccupa delle scelte affettive del padre cinese, portando contemporaneamente chi è in sala a scoprire una faccia della Cina lontanissima dalla propaganda e dal folclore. Ci sono le prigioni con i loro regolamenti e le loro utopie di rieducazione. Ci sono i villaggi isolati tra le montagne, dove il mondo sembra essersi fermato e la saggezza dei vecchi diventa autoritarismo e imposizione (nessuno si preoccupa di quello che vuole davvero il figlio del detenuto). C'è la burocrazia, la paura di prendere decisioni, la tentazione di scaricare sugli altri le responsabilità. Ma soprattutto c'è la voglia di sottolineare l'importanza di quegli affetti e di quei sentimenti che politica e società hanno sempre preferito nascondere o censurare. Se il vecchio genitore giapponese impara a chiedersi che cosa vuole davvero il ragazzino cinese, se la sua voce fuori campo si domanda più di una volta perché non ha mai saputo manifestare il proprio affetto verso il figlio morente, è evidente che quelle stesse domande Zhang Yimou le sta ponendo per prima cosa alla propria cultura e alla propria «educazione», rivendicando l'importanza di quei sentimenti che il panpoliticismo maoista aveva cercato di cancellare. E se per la prima volta in un film di Zhang manca la centralità della figura femminile, quest' assenza finisce per rendere ancora più struggente la riflessione tutta al maschile del film, come se il regista (che firma la sceneggiatura con Zou Jingzhi) volesse costringere a fare i conti con le proprie mancanze proprio la parte più refrattaria e ostica dei suoi compatrioti, quella degli uomini. Suggerendo un percorso di «formazione sentimentale» che deve molto alla prova intensissima di Ken Takatura, capace di comunicare perfettamente lo strazio dei propri errori nonostante i silenzi che gli chiede il regista.

 

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Per recuperare i rapporti col figlio malato ed esaudire il suo ultimo desiderio, l'anziano padre taciturno (Ken Takakura, mito del cinema giapponese) parte alla volta della remota regione dello Yunnan per ritrovare il cantante d'opera tanto ammirato da suo figlio, studioso di arti popolari cinesi. Zhang Yimou non calca troppo la mano sul mélo e sorprende usando volti, paesaggi, sentimenti con francescana semplicità: c'è la burocrazia, la paura di prendere decisioni, la tentazione di scaricare sugli altri le responsabilità, ma quel che emerge è la voglia di sottolineare l'importanza di quegli affetti e di quei sentimenti che politica e società hanno sempre preferito nascondere o censurare.

TORRESINO novembre 2006
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