Jafar Panahi, lo schermo prigioniero |
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pellicole all'attivo, 6 anni di carcere da
scontare. Se l'arte cinematografica si deve rapportare con le pene
"politiche" Jafar
Panahi sarebbe in credito di un
film, anche se dall'anno della sua incriminazione (2010) ha trovato il
modo di realizzare (con l'aiuto dell'amico Mojtaba Mirtahmasb) un
documentario,
This is not a film, che rende conto della snervante attesa
per l'esito della sua vicenda giudiziaria (conclusasi nel dicembre dello
stesso anno con la condanna di detenzione e la preclusione a dirigere,
scrivere e produrre film, viaggiare e rilasciare interviste sia all'estero
che all'interno dell'Iran per 20 anni…) ezio leoni - TORRESINO/LUX/sede febbraio-maggio 2012 |
Il 21 marzo in Iran si festeggia il capodanno e in quell’occasione, come augurio per il futuro, i bambini espongono un pesciolino rosso in una boccia di vetro. Razieh (Mina Mohammadkhani) ne vuole assolutamente uno nuovo, nonostante la vasca del giardino ne sia già piena. Cocciuta e insistente riesce a convincere la madre a darle la sua ultima banconota e corre a comprarlo, ma nelle strade affollate della capitale finisce per perdere il denaro, portato dal vento in un tombino: nel tentativo di recuperarlo, la bambina farà molti incontri e imparerà a conoscere un po’ di più il mondo. Un racconto morale filtrato dall’esistenza di Kiarostami (autore della sceneggiatura), messo in scena in tempo reale, pieno di personaggi presi direttamente dalla realtà (i due incantatori dì serpenti, il sarto, il militare in libera uscita, il venditore afgano di palloncini) per «aprire gli occhi anche su quello che non è bello da vedere». |
Dizionario dei film – a cura di Paolo Mereghetti |
Lo specchio
(Ayneh) |
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Pardo d'oro |
A Teheran una bambina non trova sua madre all'uscita dalla scuola. Il film racconta come torna a casa, sola. Ma in autobus la bambina (è, con due anni in più, la stessa interprete di Il palloncino bianco) si stufa di recitare, si toglie il velo e il finto gesso dal braccio e se ne va, dimenticandosi di avere addosso il microfono. Il regista decide di seguirla a sua insaputa. Il film ricomincia. Allievo di Abbas Kiarostami, Panahi (1960) fa una deliziosa variazione su due temi di base del cinema iraniano: i bambini e il cinema nel cinema. Attraverso i bambini e il loro sguardo “ingenuo” si possono aggirare i veti della censura, togliendo il velo alla realtà sociale. Col secondo espediente si mette in discussione lo statuto della fiction e del cinema in presa diretta sulla vita per la strada. “Non succede niente”, ma intenerisce, diverte, commuove, incanta e fa pensare. |
Il Morandini - Dizionario dei Film |
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Leone d'oro premio Fipresci |
Un titolo che è un’evidente metafora visto che il film inizia con un sportellino che si apre su una sala parto e si chiude, in analogia, con il chiudersi dello sportellino di una cella. La nascita è quella di un bambina, in carcere finiscono alcune donne. La loro odissea è cupa e senza speranza. Escono di prigione ad inizio pellicola, non possono che tornarci alla fine. Le città, le strade sono pattugliate, ma non è un problema di crimini commessi, ciò che anche Il cerchio descrive, è la colpa di essere donna in una società maschilista e oppressiva. Quello di Panahi è un pedinamento realistico e partecipe, il ritmo non è certo quello hollywoodiano ma il puzzle di queste figure segnate dal destino, sorrette da un’esemplare forza d’animo ha un respiro civile e cinematografico che lascia il segno. Il movimento circolare che nell’ultima sequenza abbraccia tutte le protagoniste nella penombra della cella non è solo un ribadire il titolo, è un simbolico abbraccio di solidarietà di un regista uomo alle donne del suo paese. |
Oro rosso
(Talaye
sorkh) |
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Premio della Giuria al Certain Regard |
Pochissimi possono vantare un curriculum come quello di Jafar Panahi, che con i primi tre film, fra il 1995 e il 2000, ha collezionato un premio internazionale più prestigioso dell'altro. Oro rosso conferma l'indubbio talento del cineasta iraniano; e il magistero di Abbas Kiarostami, che ha sceneggiato il film ispirandosi a un fatto di cronaca, nel rispecchiare sempre nuovi aspetti della realtà del suo paese. Si parte da una rapina fallita, che Panahi racconta con la macchina da presa fissa a inquadrare dall'interno l'ingresso di una gioielleria e sullo sfondo la strada. Insieme al negoziante entra un tipo armato che gli intima di tirare fuori i preziosi. Intanto sopraggiunge una cliente che fugge chiedendo aiuto, scatta l'allarme, la saracinesca si chiude automaticamente, il rapinatore intrappolato spara al commerciante e poi si uccide. È una sequenza laconica, secca sulla quale si innesta un flashback che si richiuderà circolarmente alla fine sulla scena iniziale. Fidanzato con la sorella dell'amico Ali, il grosso (è sotto cura cortisonica) e riservato Hussein consegna pizze a domicilio per una paga misera. Un lavoro che ogni sera lo porta nei quartieri dei ricchi che vivono in un altro modo. Esiste a Teheran una società alto borghese farisea che sfida le rigide regole coraniche, veste alla moda occidentale, beve e balla (cose proibite), può permettersi appartamenti lussuosissimi e costosi gioielli. Sbirciare in quel mondo del quale non potrà mai far parte, crea in Hussein un senso crescente di umiliazione che sfocia in un assurdo gesto ribellistico. Recitato da non professionisti, ben girato e modernissimo nei dialoghi, Oro rosso ci introduce in un universo islamico molto più complesso di come lo immaginiamo; e facendo emergere dinamiche umane e sociali simili alle nostre, in un momento tanto delicato dei rapporti fra mondo cristiano e mussulmano aiuta a capire. LUX - giugno 2004 |
Alessandra Levantesi - La Stampa |
Offside |
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Orso d'argento (Gran Premio della Giuria) |
Una partita di calcio coagula entusiasmi e contrasti: se fosse una pellicola nostrana parleremmo di un delizioso affresco ritagliato dalla realtà. Ma poiché è l'ultimo film girato da Jafar Panahi prima di cadere sotto la scure del regime di Ahmadinejad, ecco che il quadro acquista ulteriori valenze. Constatiamo infatti che alle donne è vietato entrare nell'Azadi Stadium, dove Iran-Bahrein giocano per la qualifica ai Mondiali 2006. Non rassegnandosi alla discriminazione sei giovani tifose cercano di forzare il blocco, ma dovranno accontentarsi di seguire la gara di sguincio, fra l'eco di grida e applausi. Finché per festeggiare la vittoria la gente invade le strade, accomunando nella gioia maschi e femmine; e chissà quanto avrà inquietato il potere l'immagine di questa folla felice, unita e incontrollabile. |
Alessandra Levantesi Kezich - La Stampa |
Se volete sapere perché i film di Jafar Panahi fanno tanta paura al regime di Teheran non perdete Offside, ultimo lavoro firmato dal grande regista prima di finire agli arresti. Che non è una cupa denuncia di orrori e soprusi, ma una commedia tonica e pungente, dunque capace di far cadere le maschere del potere meglio di tanti film impegnati. Facendo leva per giunta su uno spettacolo popolare come il calcio, dunque sul divertimento, o meglio su quel diritto a divertirsi e a stare insieme che il totalitarismo di Ahmadinejad usa non per unire e pacificare ma per dividere e vigilare. [...] È un susseguirsi di situazioni comiche quanto rivelatrici che mettono a nudo contraddizioni e assurdità. Perché i soldati, che affacciandosi agli spalti tentano anche una goffa cronaca in diretta del match, sanno di calcio assai meno delle loro sorvegliate. E quando una di loro chiede di andare in bagno, le coprono il volto con la foto di un calciatore perché nessuno scopra il suo sesso (e deve anche tapparsi gli occhi per non leggere i graffiti osceni...). Ma succede anche che l'anziano genitore, venuto a riprendersi la figlia con la forza, la riconosca solo quando lei toglie il berretto e rimette il cha-dor, in un gioco di maschere davvero vertiginoso. Fino a quel gran finale che chiude a sorpresa su una nota di speranza. Sappiamo com'è andata a finire poi, almeno per Panahi. Ma sappiamo anche che non può finire così. |
Fabio Ferzetti - Il Messaggero |
Nella protagonista diretta en travesti allo stadio dove l'Iran si gioca i Mondiali contro il Bahrein, Panahi fotografa un Paese sulla corsia di sorpasso della contemporaneità e insieme fermo con le ruote bucate dall'autoritarismo retrogrado. Un impasse, segnalato da luci d'emergenza politica e civile che rischiarano continuità (attenzione al femminile) e novità (comicità) del suo cinema. Da applausi. |
Federico Pontiggia - Il Fatto Quotidiano |
cinema
invisibile
TORRESINO/LUX/sede
ottobre-dicembre 2011