Sappiamo
tutti che questo film, sugli schermi nel giorno del venticinquesimo
anniversario del macabro ritrovamento di via Caetani, rievoca il rapimento
e l'assassinio di Aldo Moro . Con la civile consapevolezza, da parte del
regista Renzo Martinelli (di
Vajont
e di Porzus), di trattare
"l'avvenimento più importante nella storia italiana dell'ultimo mezzo
secolo". L'invenzione è ridotta a pochi ingredienti: l'ambientazione
senese, le tre figure del magistrato alla vigilia della pensione (Donald
Sutherland), della sua collaboratrice (Stefania Rocca) e della sua guardia
del corpo (Giancarlo Giannini), e l'indagine che essi pericolosamente
riaprono dopo che l'anziano giudice ha ricevuto il filmino girato in via
Fani da un brigatista sfuggito all'identificazione. Il resto appartiene o
alla documentazione processuale o all'ampia gamma delle ipotesi già
formulate (in particolare dagli scritti di Sergio Flamigni, consulente del
film che, va detto, ha anche ottenuto il favore della famiglia Moro). E
tuttavia, a caldo, non può non dare i brividi l'assunto sostanziale: la
sorte di Moro fu decisa dalla CIA perché nel 1978 era inaccettabile
l'ingresso nel governo del più grande partito comunista del mondo
occidentale, e Mario Moretti era uno strumento di questo disegno. Ma,
subito dopo, viene un'altra reazione. A) Se tutto questo è la verità
vogliamo che ce la dica la sentenza di un tribunale. B) Se nessuno può o
vuole dircela e dimostrarcela, stiamo perdendo tempo in chiacchiere. E non
è bello che qualcosa di così enorme e terribile sia, alla fine dei conti,
il pretesto per imbastire un rebus. Anzi, come schiamazzano i manifesti,
un "thriller" (e stendiamo un velo pietoso sul colpo di scena finale). Non
è un thriller, è la nostra vita.
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