Piccola patria
Alessandro Rossetto - Italia 2013 - 1h 51’


  Chi, fino a poco tempo fa, lamentava l'assenza di temi reali dal cinema italiano, dovrà ricredersi: pur se le commedie scacciapensieri continuano a imperversare, ora i nostri film sono anche pieni di crisi, disoccupazione, disagio sociale. È spaventosa l'immagine che, al primo 'lungo', Alessandro Rossetto ci presenta di un paesino del Nordest, spesso visto con riprese aeree nella sua desolante piattezza, tutto strade e non-luoghi: un grande albergo, centri commerciali come cattedrali nel deserto. Però il paesaggio umano è anche peggiore: tra la messa domenicale (tutti fanno la comunione, nessuno pratica la carità) e comizi xenofobi, l'unica cosa che conta sono 'i schei', i soldi. (...) Usando la tecnica dell''improvising fiction', per lasciare spazio all'improvvisazione, Rossetto realizza un film credibile e (consapevolmente) ansiogeno, che non fa sconti a nessuno.

Roberto Nepoti - La Repubblica

  ...il noir di Piccola patria è il nero assoluto di chi ha perso ogni speranza o remora morale, di chi rumina dentro di sé la propria insoddisfazione fino a farla esplodere, di chi pensa che solo i soldi, i schèi, possano essere risolutivi. E proprio dai soldi prende l'avvio il film, soldi ottenuti facendo commercio del proprio corpo ma in modi contorti, ricattatori, in parte accondiscendendo in parte ribellandosi (...). Tutto questo Rossetto lo racconta con un occhio fortemente partecipe, che sfrutta i propri precedenti documentaristici per restituire allo spettatore un tessuto dove notazioni sociali e ritratti antropologici si fondono per trovare uno nell'altro la propria spiegazione e giustificazione. L'ambiente contraddittorio e deturpato dove alberghi ultramoderni sono circondati da abitazioni rurali, capannoni dismessi e cascine semiabbandonate; le ovvietà e le banalità dei discorsi in libertà, tra amici o a folcloristici raduni politici (...); il chiuso delle case dove il quotidiano nasconde tensioni o ambiguità (...); tutto questo aiuta a delineare l'atmosfera in cui le due ragazze pensano di costruire il loro ricatto ma anche a capire come le persone coinvolte (...) possono diventare all'improvviso incontrollabili e pericolosi. Anche se a un certo momento l'affetto per l'incolpevole Bilal spingerà Luisa a ripensare al suo piano (scatenando la rabbia e la vendetta dell'amica che si sente tradita), il film non vuole assolvere nessuno. L'immoralità degli uomini, convinti di poter usare i soldi per permettersi tutto fa il paio con l'amoralità delle ragazze, disposte a usare i loro corpi e la loro sessualità senza nessuna remora. E alla fine il film non ha compassione nemmeno per la madre di Luisa, una specie di «madonna dolorosa», schiacciata tra la rabbia del marito, l'indifferenza della figlia e il peso di un quotidiano stentato e senza speranza, che Lucia Mascino rende con misura e partecipazione commovente. Così come non ha una sbavatura tutto il cast, illuminato dalla prova delle due protagoniste entrambe esordienti. Certo, a volte il film sembra cercare un po' troppo l'effetto «arty», con i suoi commenti musicali in forma di cantata sacrale (che parlano di estati senza ombre, piazze senza pace e prati senza fiori) o con un montaggio che sembra compiaciuto della propria ellitticità, ma sono piccoli difetti che passano in secondo piano di fronte alla forza complessiva di questo viaggio antropologico dentro un mondo che sembra lontano ma che può prendere forma all'improvviso in ognuno di noi.

Paolo Mereghetti - Il Corriere della Sera

  Francamente (la politica non c'entra niente) comincia a diventare imbarazzante l'odio che i cineasti italiani esprimono con martellante continuità contro il Nordest. Sicuramente gravata come altre regioni (meglio non scendere nel dettaglio) da brutture e malesseri, questa importante comunità del nostro paese non può diventare una sorta di vomitorio di tutte le rabbie represse degli indignati con la cinepresa: il fenomeno, in effetti, finisce per penalizzare i film le cui buone intenzioni narrative e le cui buone dotazioni stilistiche sono soverchiate dall'ansia d'infilarle dentro il calderone del suddetto inferno opulento, razzista, xenofobo e secessionista. Con Piccola patria il cinquantunenne ex documentarista Rossetto approda al film di finzione avendo tra le mani una bella storia, densa d'intrecci paracriminali, psicologie deviate e morbose attrazioni di sesso: padrone del mezzo, tanto da indulgere persino a qualche effetto estetizzante e qualche acrobazia di montaggio da cineclub, imposta i fatti e dirige gli attori efficacemente fin quando la rabbia di cui sopra non lo spinge a 'spiegare' tutto con una ferrea chiave deterministica che sarebbe parsa eccessiva a Zola e i fratelli Goncourt. (...) Restano da lodare sia i grigi e scorticati excursus paesaggistici, sia la prova degli attori, tra cui spicca la magnifica erinni Roveran di professione cantante. Peccato che dalle atmosfere avvincenti e, comunque, non meno spietate di un Simenon ci si ritrovi alla fine ristretti nei lacci del solito pamphlet moralistico sulla «mercificazione dei corpi.

Valerio Caprara -  Il  Mattino

      

promo

Luisa e Renata vivono in un piccolo paese della provincia veneta. La vivace, disinibita e trasgressiva Luisa ha una relazione con Bilal, un ragazzo albanese; Renata è oscura e bisognosa d'amore, ma anche arrabbiata e in cerca di vendetta. Entrambe sognano di andare via da quella piccola comunità in cui sono cresciute tra feste di paese e raduni indipendentisti; fuggire da quella realtà fatta di famiglie sfinite e nuove generazioni di migranti che mal si sopportano. Le loro scelte scateneranno una tragedia che rischierà di portare alla rovina le vite di tutti... È spaventosa l'immagine che Rossetto ci presenta di un paesino del Nordest, spesso visto con riprese aeree nella sua desolante piattezza, tutto strade e non-luoghi (un grande albergo, centri commerciali come cattedrali nel deserto), però il paesaggio umano è anche peggiore! Un film consapevolmente ansiogeno, che non fa sconti a nessuno.

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