«Non
lasciar uscire il gatto, non lasciar entrare la portinaia». Paloma ha
11 anni ma nulla le sfugge. Tanto più che tiene un diario filmato in cui
registra con la vecchia telecamera di papà tutto ciò che vede o intuisce.
A cominciare dai taciti ma ferrei precetti, come quello appena citato, che
regolano la sua esistenza ordinata, troppo ordinata, di altoborghese
parigina in erba. Paloma insomma è una ribelle, a un'età, in un'epoca e in
un palazzo che rendono la ribellione inconcepibile dunque invisibile.
Così, per non finire come i suoi familiari, ha deciso che a 12 anni si
toglierà la vita. Ma intanto nota e capisce tutto. Solo lei si accorge di
quelle regolette intrise di classismo e ammantate di buone maniere (dentro
il gatto, fuori la portiera); solo lei nota che, da quando va in analisi,
la mamma prende manciate di psicofarmaci; solo lei osa rimettere in riga
un ospite pomposo del padre deputato, colpevole di dire scemenze sul gioco
del Go (una delle scene più belle del film, nonché il suo cuore poetico). |
Fabio Ferzetti - Il Messaggero |
Da un romanzo non bellissimo e magari sopravvalutato, è sortito un film non brutto ma sicuramente sottovalutato. Anzitutto dall' autrice de L'eleganza del riccio, Muriel Burbery, che ha scomunicato l' opera, stroncata senza pietà, e ha intimato alla produzione di sostituire la dicitura «tratto da» con la più generica «liberamente ispirato». Come se per gli spettatori facesse questa gran differenza. Una spiegazione un po' maliziosa di tanta furia è che la Barbery si sia pentita d' aver venduto i diritti cinematografici troppo presto, quando il romanzo non aveva ancora venduto milioni di copie, accettando la regia e la sceneggiatura dell' esordiente Mona Achache. Una dose di calcolo è del resto il difetto principale della scrittrice, peraltro compensata dall' intelligenza e da un notevole sense of humour. Queste due qualità in effetti si perdono non poco sullo schermo. Ma Il riccio ha altre qualità. |
Curzio Maltese - La Repubblica |
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Non era facile portare sullo schermo L'eleganza del riccio di Muriel Barbéry best-seller iperletterario articolato in una serie di monologhi. L'esordiente Mona Achache sceglie la semplicità, ovvero la simpatia e la vivacità (trasformando i monologhi nelle scene filmate da Paloma o nei disegni che esegue a getto continuo) con una apprezzabile capacità di dipingere con pochi tratti, rispetto alle tirate filosofiche del testo, il penoso senso della vita dell'ipocrita alta borghesia francese. Bastano un mezzo sorriso o uno sguardo o una lieve esitazione di tono alla Balasko per schiudere allo spettatore i mondi segreti di sogni e idee e bellezza che al lettore erano raccontati in decine di pagine. Da un buon romanzo (forse sopravvalutato) un film svelto, illustrativo, non troppo ambizioso e per questo forse meglio riuscito. |
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LUX
- gennaio-febbraio 2010 |
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