Il suo nome è Tsotsi (Tsotsi)
Gavin Hood - Inghilterra/Sudafrica 2005 - 1h 31'

miglior film straniero


sito ufficiale

da Il Corriere della Sera (Maurizio Porro)

      È una bellissima sorpresa questo film sudafricano dell'avv. Gavin Hood, ispirato dal libro di Athol Fugard. Sguardo originale e impietoso sulla Johannesburg di oggi, con stile neorealista che si fa per incanto fantastico quando riesce a riprendere qualcosa di interiore, misterioso. La redenzione a vista del banditello di strada (uno tsotsi), che nel ghetto nero ruba un' auto con un neonato a bordo e poco alla volta gli si affeziona, scoprendo una coscienza e un' innocenza. Il romanzo fu scritto nell' apartheid del '50; il film è più ottimista, ma non fa sconti sulla violenza: la democrazia del Sud Africa vuole oggi speranza nonostante l' Aids (25%) e la disoccupazione (40%). Avventura umana esemplare, vissuta con totale adesione da Presley Chweneyagae. Denuncia non manichea, spettacolare nel meglio: trasmette il cambiamento che esprime, al di là di ogni regola etico-sociale.

da La Repubblica (Roberto Nepoti)

      Il diciannovenne Tsotsi di Johannesburg non conserva ricordi del passato; anche il suo nome è uno pseudonimo, che nel linguaggio del ghetto significa "bandito". Dopo alcune efferatezze, come un'aggressione in metropolitana e il pestaggio di un amico, il criminale spara a una donna per rubarle l'auto. Sul veicolo trova una sorpresa: un lattante che gli cambierà la vita. Contro l'immagine che ha di sé, Tsotsi prova l'impulso a prendersi cura del piccolo: lo fa allattare da una vicina; si spinge a tornare nella ricca casa dei suoi genitori pur di rifornirlo di corredino e generi per la prima infanzia. In realtà, s'è innescato un processo d'identificazione col fantolino che era un tempo lui stesso; e il film ce lo mostra con zelo didascalico, attraverso flashback deputati a ripristinargli i file della memoria.
Non bisogna aspettarsi un reportage sulla vita dei ghetti, come appare sempre più evidente man mano che si va verso il finale, romantico e struggente. Però il prodotto, astuto senza banalità, si fa apprezzare e l'accompagnamento della musica kwaito rende più energico lo scorrere delle immagini.

da Il Sole 24 ore (Aldo Fittante)

    Circondato dai poliziotti con le armi spianate, Tsotsi (Presley Chweneyagae) alza le mani. La macchina da presa gli gira intorno e lo riprende di spalle, dal basso. Ora, le sue braccia tese non valgono più solo come segno di resa, ma anche come una sorta di riconciliazione con se stesso: con quello che non è potuto essere, e con quello che forse diventerà. Così, su quest’immagine d’una speranza nuova, si chiude Il suo nome è Tsotsi.
La storia di «Criminale» — questo significa tsotsi a Soweto — viene dal milione di storie che s’addensano nella «città dei neri», nelle baracche dei più poveri tra i poveri. La pur vicina Johannesburg per tutto il film si intravede solo nei profili dei grattacieli, svettanti sullo sfondo di un mondo estraneo. Della città sudafricana, e a partire da un romanzo di Athol Fugard, Gavin Hood mostra in dettaglio quasi solo gli interni del metrò, terreno di caccia di Tsotsi e della sua banda. Armati d’una pistola, d’un lungo punteruolo e della propria miseria, i quattro adolescenti si muovono tra la gente, in cerca di prede. Quando ne individuano una, la seguono, la circondano, la derubano e, per quanto non ce ne sia un vero motivo, arrivano a ucciderla. Tutto avviene senza che un’emozione emerga sui loro volti o affiori nelle loro parole. Solo Boston (Mothusi Magano) sfugge a questa indifferenza terribile. Gli altri lo chiamano «il maestro», perché ha studiato fin quasi a diventarlo, un maestro vero. Ora è qui, con loro e quasi come loro, ma porta con sé qualcosa che a loro manca: un residuo di compassione, una capacità ancora viva di sentire e vedere gli altri, e di provare orrore. "Tu non hai rispetto - dice Boston a Tsotsi - tu non conosci la dignità". E intende quello stesso rispetto e quella stessa dignità che, poco prima, insieme hanno negato e spento nello sconosciuto nel cui addome Butcher (Zenzo Ngqobe) ha spinto il suo pugnale rudimentale e sottile. Era pieno di rispetto e di dignità, quel poveraccio. Se ne stava tornado a casa dalla moglie, con la sua cravatta appena comperata proprio nel sotterraneo del metrò. Così insiste a dire Boston, con le sue parole "colte" e ricercate, e tanto diverse da quelle degli altri. La risposta di Tsotsi è silenziosa, brutale. Lo aggredisce, lo butta a terra, lo colpisce fino a sfigurarlo, un pugno dopo l'altro. E ancora una volta non c’è emozione in lui, ma solo una furia fredda.
Non ha né rispetto né dignità, il giovane capobanda. L’uno e l’altra gli sono state rubate a Soweto nella miseria d’una casa dominata dalla ferocia del padre e dalla malattia mortale della madre («Siamo tutti affetti da hiv e da aids», continuano a ripetere grandi cartelli esposti nei sotterranei del metrò). Ne è fuggito anni prima., con disperato coraggio. E a lungo s’è ridotto a strappare via il suo presente dalla morte, senza attesa d’alcun futuro. È poi sopravvissuto nascondendosi nei campi desolati che circondano Soweto, giorno dopo giorno, protetto solo da uno dei grossi tubi di cemento in cui, ancora adesso, altri ragazzini come lui si inventano una nuova "casa", l’unica di cui dispongano. È diventato un predatore, uno tsotsi che non conosce compassione, che non vede e non sente orrore. È questa, certo, la condizione per non soffrir più di se stesso, del suo abbandono senza limiti.
Eppure, nel gelo dei suoi occhi — anche per merito del bravo Chweneyagae — c’è l’ombra di un’attesa, di una mancanza che urla in silenzio, e che chiede d’esser colmata. Lui ne è inconsapevole. Lo resta anche quando si trova di fronte a una vita nascosta dentro una culla, sul sedile posteriore di un’auto che ha appena rubata. Ma se la prende per sé, quella piccola vita, come a lui è stata presa la sua. Confusamente, sente d’averne diritto, quasi per risarcimento, d’aver diritto attraverso di essa a un nuovo presente e a un nuovo futuro. Dunque, decide di prendersi cura di quel lattante rubato. Lo fa come può, goffo e sporco. E da quella sua cura, dal fare difficile e necessario che essa comporta, pian piano Tsotsi torna a imparare qualcosa che da tempo ha dimenticato. Impara a guardare e a vedere un altro, e perciò gli altri. Impara a mantener fede a quel che guarda e vede, e a rendersene responsabile. E può tornare a soffrire, a sentire la lacerazione che lo annulla, e a giudicare l’abbandono in cui s’è perso.
Così, con lo stesso coraggio di un tempo, ma con una speranza nuova e innocente, ‘riconsegna" quella piccola vita, strappandosela via di dosso. Intanto e per la prima volta, un pianto quieto porta fin sul suo viso quello che gli esplode dentro: sofferenza, certo, ma anche sollievo e calore, come di chi stia per ritrovarsi.



 
anteprima

TORRESINO - 3 maggio 2006