U-Carmen ekhayelitsha
Mark Dornford-May - Sud Africa 2004 - 2h

Orso d'oro Festival di BERLINO 2005

sito ufficiale

da La Repubblica (Roberto Nepoti)

     Tra i personaggi archetipici, la Carmen di Mérimée è uno dei più rappresentati dal cinema, “muto” e “sonoro”. Il secondo ha prodotto anche varie versioni del melodramma di Bizet, tra cui una di Francesco Rosi e Carmen Jones, già interpretata da attori di colore. Con U-Carmen ekhayelitsha, inatteso (ma non immeritato) Orso d’oro alla Berlinale 2005, siamo di fronte a un’esperienza davvero sui generis: l’opera è affidata alla compagnia Dimpho Di Kopane, mentre l’orchestra Imbumba mischia le celebri arie di Bizet in un inedito e suggestivo impasto con la musica tradizionale sudafricana. Nella colonna visiva passano le immagini della odierna Khavelisha, con le sue catapecchie e le sue bidonville; intorno agli attori-cantanti della compagnia, si muove un migliaio di comparse prese dalla strada. La storia è fedele a quella che conosciamo: un poliziotto è sedotto dalla sigaraia Carmen, che lo porta sulla via del crimine prima di preferirgli un altro, suscitandone la gelosia omicida. A parte qualche lecita variante; come quella del rivale, che da matador si trasforma in cantante. Le voci sono splendide; la Carmen di Pauline Malefàne, che l’estetica imperante alle nostre latitudini considererebbe più che soprappeso, autenticamente sensuale. Balazs formulò forti riserve sulle opere filmate, giudicando incompatibile la stilizzazione della lirica con il realismo fotografico. Se potesse vedere questo film, forse si ricrederebbe.

da La Stampa (Alessandra Levantesi)

     Questo strano titolo U-Carmen ekhayelitsha significa semplicemente «la Carmen di Città del Capo» e trasferisce con molta libertà l'azione del melodramma di Georges Bizet dall'800 sivigliano all'odierna metropoli sudafricana. Un'operazione opposta alla stupenda Carmen filologica e neorealista di Francesco Rosi (1984); e analoga, invece, a quella che fece Otto Preminger ambientando il suo Carmen Jones (1954) fra i neri del sud degli Stati Uniti. Se a monte della versione hollywoodiana, che lanciò Dorothy Dandridge e Harry Belafonte, c'era un musical di Broadway firmato Oscar Hammerstein II, anche questa variazione dell'esordiente Mark Dornford-May è nata da uno spettacolo teatrale della compagnia Dimpho Di Kopane (ovvero «Talenti combinati»). Cantano tutti in lingua Xhosa e sembrano presi dalla strada per come sono spontanei e lontani da qualsiasi vezzo imitativo. Tanto che uno dei tratti più interessanti del film, girato in un contesto borgataro alla Pasolini, è la capacità di restituire con sguardo fresco uno spaccato della marginalità post-apartheid, dove la miseria persiste coniugata però a un'orgogliosa rivendicazione di libertà. Il che ben si intona al ribellismo della sigaraia Carmen cui Pauline Malefane imprime il tradizionale fascino stregonesco, mentre il Jongikhaya di Andile Tshoni risulta ancora più tonto del già abbastanza ingenuo don Josè dell'opera. La colonna sonora sposa spregiudicatamente la musica di Bizet con inserti popolareschi sudafricani, creando un impasto mai stridente e a volte molto efficace. Tuttavia nel prendere in mano le fila del libretto, gli sceneggiatori (fra i quali c'è la stessa Pauline) hanno indebolito certi punti forti del melò: il rapporto di Lulamile (il torero Escamillo) con Carmen è pressoché inesistente; e anche la passione di quest'ultima con il soldatino disertore non è mostrata in tutta la sua forza trascinatrice. Ogni tanto la ricucitura della trama svela i punti e l'intera operazione lascia forse qualche dubbio. Il che non ha impedito alla giuria della Berlinale 2005 di attribuire al film l'Orso d'oro.

TORRESINO - gennaio 2006
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