La fiera delle vanità (Vanity Fair)
Mira Nair - USA 2004 - 2h 10''

     Per chi ha letto da ragazzina il romanzo di William Makepeace Thacheray Vanity Fair e conserva l’eco delle emozioni allora provate, la trasposizione cinematografica realizzata dalla regista indiana Mira Nair costituisce un attacco ai ricordi. Non che la vicenda non sia rispettata. La storia è quella che Tacheray ambienta nell’Inghilterra dell'800 e vede intrecciarsi, sullo sfondo di momenti cruciali della storia, come la battaglia di Waterloo, la vita di due giovani amiche: l’orfana Becky, decisa a conquistarsi con ogni mezzo quel posto nell'alta società che la sua nascita sembra precluderle, e la dolce Amelia Sedley, legata ad un'immagine ideale del suo passato che le impedisce di aprirsi al presente; entrambe messe alla prova da una società rigidamente classista.
Il romanzo crea due figure femminili di straordinario spessore, nella cui psicologia il lettore penetra a fondo, e le varie situazioni sono rese più appassionanti dal contrasto tra i due caratteri: da un lato Amelia, pervicacemente sincera, leale, ingenua, dall’altro Becky, sensuale, intelligente, scaltra. Mira Nair (
Salaam Bombay!, Mississippi Masala, Monsoon Wedding) nell’adattare il romanzo, fa una scelta decisa, elegge come eroina del film la sola Becky, proponendola come personaggio moderno, attuale (“ giudico Becky una donna in anticipo sui tempi, forte anche nei compromessi, che era disposta ad accettare per uno scopo”). Questa lettura è sottolineata anche dalla scelta dell’attrice chiamata ad interpretare la protagonista, l’americana Reese Witherspoon, che esprime bene il pragmatismo ma anche l’energia che la regista imprime al personaggio. Ne guadagnano i dialoghi, tesi e brillanti, che contribuiscono a dare al film, soprattutto nella prima parte, un ritmo vivace, quasi frizzante.
Tale spostamento dell’asse del romanzo, in sé legittimo (un buon adattamento non può che essere una interpretazione), toglie però mordente a una delle linee narrative portanti, che continua a svolgersi ma per cui lo spettatore finisce per non provare grande interesse: il personaggio di Amelia, perdendo il suo spessore, perde anche gran parte della sua credibilità e lo stesso accade ai personaggi strettamente a lei collegati. D’altra parte acquista maggiore spazio e vivacità il disegno del rapporto tra Becky e Rawdon (cui dà una certa dose di fascino l’interpretazione di James Purefoy), trasformato in un grande amore, ricco di complicità e passione: la regista vede i due avventurieri come una sorta di Bonnie e Clyde, una coppia decisa a spingersi fino al limite pur di raggiungere i propri obiettivi.
L’altra chiave di lettura scelta dalla Nair nell’interpretare il romanzo è legata alle sue origini, ma non è estranea alla storia dello scrittore, nato a Calcutta: c’è un filo rosso che percorre il film ed è l’evocazione di atmosfere, costumi, danze, luoghi legati appunto all’India. Questo significa un’immissione, nell’immagine, di colore, movimento, ricchezza compositiva, insieme ad una sfacciata tendenza a inserire musiche e danze nel tessuto del film, sposando  quasi la grande produzione anglo-hollywoodiana con lo stile di Bollywood.
Così nello sfarzo di scenografie e costumi, nel dipanarsi di grandi e piccole vicende, nel progressivo calare del ritmo, i personaggi si fanno via via più evanescenti. Se alla fine lo spettatore non esce scontento, resta certamente lontano dal coinvolgimento che  la regia vorrebbe come anima del suo
Vanity Fair: “siamo veramente felici quando conquistiamo ciò che desideriamo?”

Licia Miolo - MC magazine 11  ottobre 2004

LUX - marzo 2005