La vita che vorrei
Giuseppe Piccioni - Italia 2004 - 2h 5'

da La Stampa (Lietta Tornabuoni)

     Film nel film, amore nell’amore: ne La vita che vorrei di Giuseppe Piccioni tutto si duplica, l’esistenza si raddoppia nel cinema. Un’attrice e un attore impegnati a interpretare un meló ottocentesco s’innamorano, la loro passione reale procede parallela o incrociata a quella che stanno recitando, decade: "Finiamo questo film, poi è meglio se non ci vediamo più", "Sì, è meglio". Ma la vita va come vuole. L’amore serve a raccontare il cinema, gli attori. Il regista li guarda come un uomo di mestiere e insieme come uno spettatore, con ingenuo stupore e insieme con famigliarità profonda, con ironia, e insieme con affetto. Gelosie, rivalità, nervi, stanchezze, sopraffanno spesso il sentimento tra lei, attrice d’istinto agli inizi, e lui, attore di scuola già popolare. Il set è per l’autore un album di famiglia, una casa infida: con il regista calmo e spietato, gli agenti personali aggressivi, svelti e loquaci, i truccatori invadenti, le sarte protettive, le attese interminabili, i troppi ciak dei momenti brutti, i festeggiamenti collettivi, il cibo ("buono però questo cestino"), gli equivoci dolorosi, le risate, i rancori, il formarsi di un gruppo dai legami strettissimi pronti a sciogliersi in un attimo, i pettegolezzi... Il rapporto tra vero-finto amore e amore nel film del film non realizza tanto una fusione, quanto sottolinea la lontananza (o la prossimità) tra melodramma e quotidianità. Piacevole, imperfetto, il film che vuol tenere insieme autobiografia, realtà e rappresentazione ha il vantaggio di essere diretto con calore, nostalgia, desiderio di lavorare al meglio, divertimento: il che lo rende radicalmente differente (e migliore) di molti film italiani fatti tanto per fare, rincorrendo soldi o gratificazioni.

da La Repubblica (Paolo D'agostini)

     Il pregio di La vita che vorrei è quello di non perdere mai la sua ragione alta e la sua risonanza universale a dispetto della proverbiale futilità del mondo d'apparenze di cui parla. La sua sottigliezza è quella di soppesare di continuo le sfaccettature delle due opzioni rappresentate da Laura e Stefano, di sorprendere con una luce d'indulgenza ogni volta che l'uno sembra migliore dell'altro, di spaesare offrendo ora all'uno ora all'altra una chance di verità. E' così che un gioco apparentemente vacuo, quello del recitare, si risolve in uno specchio della vita.

da Il Corriere della Sera (Maurizio Porro)

     Sarà vero che gli attori dicono sempre la verità anche quando mentono, e viceversa? Tema sempre attuale, il rapporto tra la sincerità e la bugia organizzata che viene da lontano, da un cinema che si interroga sul profondo significato dell'arte della recitazione come bugia artistica. Nel suo nuovo, affascinante La vita che vorrei, Giuseppe Piccioni, ancora e apposta un po' "fuori dal mondo", svolge il teorema sentimentale con l'ovvia complicità di Pirandello. E inquadra due star, lui iperattivo di solida e fascinosa popolarità (Luigi lo Cascio è un ottimo attore ma siamo sicuri che abbia una tale aureola seduttiva?) e lei neofita in carriera, che si innamorano davvero fingendo una love story ottocentesca completa di valzer sul set di un film che sembra una fiction tv. Complice una sceneggiatura romantica i due, isterici per vanagloria ma sinceramente infelici, si abbandonano alle rispettive crisi e carenze affettive. Non sarà facile: il ping pong degli affetti si complica sotto i riflettori. Tra una ripicca e un rimorso, un addio e un ti voglio bene, i due consumano energie psichiche sottratte alla telenovela. Si lasceranno. Non senza che l' autore però inserisca nel finale più aperto del solito un neonato, suo copyright: beneaugurante ma forse inutile in un contesto narrativo che fa fin troppe fusa e ha qualche battuta di troppo. La vita che vorrei, prodotto da Lionello Cerri è, nel panorama di un cinema succube delle mode, un film coraggioso e intelligente, anche se lavora sugli stereotipi del mondo dèmi dorato del cinema, con trucchi, buffet, agenti, copioni, anteprime e cotillons, la brava Galatea Ranzi e il suo regista Luca (non Ronconi, ma Bruschetta). Ma estraendo dagli sguardi, dai silenzi, dalle atmosfere, il faticoso romanzo di una passione forzata e forse negata, esce un film più ristretto e appassionato, pieno di vitaminici dubbi, anche se il ring affettivo oscura il baricentro, il rapporto fra mentire e recitare. Straordinario l'avvio, col provino della bravissima Sandra Ceccarelli, vera anima della storia, piena di chiaroscuri e misteri negli occhi. Trattasi ancora e sempre di cinema nel cinema, con rimandi ottimi e abbondanti al melodramma e alla poetica della finzione (Effetto notte, La donna del tenente francese), dove una crepa può introdurre il respiro della vita, giustificando il drammatico condizionale del titolo.

TORRESINO - ottobre/novembre 2004