You, the Living (Du levande)
Roy Andersson - Svezia/ Ger/Fra/Dan/Nor 2007 - 1h 34'

     Reduce da Cannes e dalla gara degli Oscar, arriva un geniale film svedese, il quarto scritto e diretto da Roy Anderssonfilm successivo in archivio, che si fa precedere da un pensierino da suicidio di Goethe. E il racconto è un puzzle di circa 50 scene sui nostri destini: l'uomo è la delizia dell'uomo (si fa per dire). Con una certa voglia di stupire, l'autore mescola storie buffe, disperate e/o grottesche in un'idea di cinema originale che confina con film precedente in archivio Lars Von Trier, ma soprattutto col nichilismo di film precedente in archivio Kaurismaki e con certe invettive fassbinderiane. Fin troppa grazia, ma il miscuglio è di quelli di ordinaria e contagiosa follia, una serie di mini sketch di sogni e incubi contemporanei, gente che soffre, suona, beve, impreca e prega (per la salvezza di giornali e tv che falsificano il reale) finché arrivano rombanti gli aerei che metteranno probabilmente fine a questi squallori che perfino l'analista non sopporta più. Prima che scompaia, voi cinefili agguantatevi questa chicca.

Maurizio Porro - Il Corriere della Sera

    Se i Festival servono ancora a qualcosa è per preservare geni pazzi e anarcoidi come Roy Andersson. Berlino e Cannes si sono coccolati questo maestro svedese dell'umano e del surreale. You, the Living, suo quarto lungometraggio (in 37 anni) ne è una divertente e malinconica dimostrazione: decine di quadri di una quotidianità emarginata, sconfitta e allo stesso tempo fantasiosa. Frasi storiche o banali come «Domani è un altro giorno» o «Nessuno mi capisce» qui diventano tormentoni improbabili, per un'ultima ordinazione al pub o per il pessimismo comico di depresse alcolizzate. La continuity narrativa è affidata alla mente malata del regista e degli spettatori, con un collegamento irriverente e geniale, una vera bomba, tra prima e ultima sequenza. Insomma You, the Living è un film da vedere almeno quanto è difficile da raccontare. Perché quello di Andersson è cinema libero e selvaggio (ha creato Studio 24, una produzione tutta sua in un ex palazzo del telegrafo solo per non avere padroni), perché non ha limiti se non il rigore del suo talento. Piani sequenza, grandangoli, riprese in studio, scenografie scarne e monocolore, Roy si accinge ad ogni sfida, vincendola con deliri onirici sempre più bizzarri. La giovane coppia di sposi con la casa semovibile, l'incubo di un autista che sogna di essere condannato per un grave danno alla proprietà privata, altrui diventano anche una critica a una società rigida e capitalista. Roy non brandisce l'ideologia, ma un'umanità (in)dolente e un enorme bravura registica per raccontare gli sconfitti, gli ultimi. Con divertita ironia.

Federico Raponi - Liberazione

    In un'anonima città svedese s'intrecciano storie di vite umane alle prese con solitudini e inquietudini, ferocemente ingabbiate in scarse soddisfazioni e mancanze di prospettive future. E allora, in un'atmosfera costantemente rarefatta dalla nebbia densa e dal grigiore metropolitano, si muovono figure diafane, che naufragano all'interno della loro anima incerti su dove andare, cosa fare e perché: c'è la giovane maestra che litiga per motivi futili con il marito, c'è la ragazzina follemente innamorata di un giovane musicista, c'è una donna che sfoga sul compagno e nel bere le sue frustrazioni. Ognuno di loro cerca però di rimanere a galla, di reagire con la musica e con l'autoironia, facendosi quasi caricatura di se stesso e delle sue problematiche esistenziali.
Non ha una vera e propria trama questo lungometraggio di Roy Andersson: è un'opera che ha il sapore del teatro con gli attori che parlano guardando in macchina e rivolgendosi direttamente allo spettatore, pesantemente truccati, con il viso che diventa una maschera bianca. Una staticità spesso surreale, accompagnata da uno schema fotografico monocromatico che oscilla tra il verde e l'azzurro, circonda ogni minimo e lento muoversi dei personaggi che, quasi sempre ripresi in asettici interni, vomitano le loro ansie e il loro male di vivere.
A fare da sfondo culturale e ideologico un certo gusto dell'assurdo (il pensiero a Samuel Beckett arriva sovente) e del burlesque, che donano alla pellicola una leggerezza cupa e a tratti clownesca, accompagnate dai timbri degli ottoni e dalle sonorità che ricordano il miglior jazz di New Orleans. In una continua alternanza tra scene reali e sequenze oniriche, tutte comunque finalizzate a una profonda semplicità visiva, il film si dipana lentamente perdendo con il passare dei minuti la forza nuova e fresca dell'inizio: sembra non esserci evoluzione, nessun climax che porti il film a una crescita che invece ci si dovrebbe aspettare.
Candidata all'Oscar 2007 come miglior film straniero, questa opera cinematografica ha certamente il gusto della spontaneità e dell'innovazione, ma ha l'amaro retrogusto dell'occasione un po' mancata.

Letizia della Luna - mymovies.it




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In un'anonima città svedese s'intrecciano storie di vite umane alle prese con solitudini e inquietudini, ferocemente ingabbiate in scarse soddisfazioni e mancanze di prospettive future. Non ha una vera e propria trama quest'opera, tanto originale quanto (purtroppo) poco pubblicizzata, che ha gusto dell'assurdo e del burlesque: elementi che donano alla pellicola una leggerezza cupa e a tratti clownesca, accompagnate dai timbri degli ottoni e dalle sonorità jazz. Con una certa voglia di stupire, l'autore mescola allora storie buffe, disperate e/o grottesche in un'idea di cinema originale che confina con Lars Von Trier, ma soprattutto col nichilismo di Kaurismaki e con certe invettive fassbinderiane. Piani sequenza, grandangoli, riprese in studio, scenografie scarne, Andersson si accinge ad ogni sfida, vincendola con deliri onirici sempre più bizzarri. Candidato all'Oscar 2007 come miglior film straniero!

LUX - ottobre 2007
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