(dicembre-gennaio)
febbraio-marzo 2004

bimestrale di cinema, cultura e altro...

n° 9
Reg.1757 (PD 20/08/01)

 

 

  pag 2   

 

    Questa XXII edizione ha riservato ai suoi fan una serie di imperdibili chicche: un omaggio di sei capolavori di Andrei Tarkovskij, in copie nuove da negativo (restaurate a cura dell’Istituto Internazionale che porta il suo stesso nome) tra cui Il rullo compressore e il violino (1960), L’infanzia di Ivan (1962), Andrei Rublëv (1966), Solaris (1972), Lo specchio (1974) e Stalker (1979); una serie di anteprime; una personale di Guy Maddin...

LINDSAY forever….

      Ma il clou del BFM è stata la retrospettiva dedicata a Lindsay Anderson, un vero look back (not in anger), un ricordare (non con rabbia ma) con tanta malinconia... E, insieme, con gioia nel rivedere alcune delle sue migliori pellicole quanto mai, ancora oggi, up to date. Sorprende, infatti, la sua attualità, la sua modernità che forse, in qualche modo, sono cifra stilistica di certo cinema (e teatro) inglese, ma non solo ‘arrabbiato’ o, perlomeno, ‘canonizzato’ come tale: rivedere If…/Se… (1968) è stato tornare indietro e riprovare letteralmente quanto vissuto allora, in specie visualizzando certe scene: è stato emozione indicibile, epocale, generazionale..   È stato come riprender secoli di storia e ribaltarli nel crogiuolo del tempo e ritrovare la freschezza di una ribellione cinematograficamente fissata in termini cronologici ma con una validità permanente, al di fuori del tempo, anzi definibile, meta-anacronisticamente, moderna.
    Un sicuro prodromo If…  per riagganciarci a certo cinema di cui sopra, non solo ‘arrabbiato’ –  il Kubrick di
The Clockwork Orange / Arancia meccanica che è di tre anni dopo o il Peter Medak di The Ruling Class / La classe dirigente, del 1976 - ricco di ‘facili’ ammiccamenti, da parte di quell’attore-feticcio che Malcolm Mc Dowell è stato per Anderson ma non solo (corre, ‘naturale’ obbligo, ri-citare Kubrick), che rimandano, in realtà, ad un mondo nuovo (Brave new World?) che si preparava a controbattere quello vecchio, "bacchettone e cattivo", che non ha (mai avuto) ragion d’essere. Indimenticabili quelle scene: gli spari, le bombe dei giovani dal tetto della chiesa, la donna al fianco da Travis/McDowell trovata per caso (?) in un caffè con la quale, a sua volta, ha ingaggiato una selvaggia schermaglia d’amore - splendido contrappunto musicale il Sanctus della Messa Luba in sottofondo - ancora più agguerrita, arrabbiata , ribelle di loro, studenti di un ammuffito college dove prevale la ragion di stato del più puro ed idiota ‘nonnismo’ che altro non fa che perpetuare (adombrandola) la più "classica" società inglese. Simbolico e sintomatico anche il contrasto della colonna sonora: alla Messa Luba del nuovo che avanza si contrappone in antecedenza, nel ‘quotidiano’ del college la Toccata di Widor che – guarda caso – ha fatto da commento musicale, tra gli altri, al matrimonio di Carlo e Diana (un altro segno premonitore, anni dopo, dell’UK che si sgretola?).
   Grande e graffiante Anderson anche quando fa teatro in televisione: è il caso di
Home, del 1972, tratto da una commedia di David Storey, un lavoro ambientato in una casa di cura per malattie mentali: luoghi comuni sul tempo, sulla vita, sulla vecchiaia, conditi, ‘nonostante’, del più puro humour inglese, quello delle battute tipo "really – ma davvero?" che sottolineano la banalità e l’ovvio nella maniera più innocente (e sarcastica) possibile; un meaning of life tra uomini e donne che stanno aspettando, in svariati vari, di chiudere più o meno amaramente la propria ‘lineare’ esistenza. Il contesto si potrebbe comunque inventare: sì un manicomio o una casa di riposo, ma è irrilevante; ciò che conta è il senso di inanità, di solitudine, di dolore estremo, irrecuperabile, inconsolabile che fa sgorgare lacrime dagli occhi di un ‘immenso’ (assieme a Ralph Richardson) John Gielgud.
    Ancora grandezza, ironia, surrealismo – quasi teatro dell’assurdo – per l’Anderson di
The Old Crowd del 1979, dalla commedia omonima di Alan Bennett, per la produzione di Stephen Frears: una coppia della media borghesia si ritrova nella nuova elegante casa vuota poiché i nuovi mobili sono stati dirottati altrove ed il ricevimento coi vecchi amici tocca punte della più esilarante, lucida follia, capace di avventurarsi nei meandri del perbenismo inglese a tutto tondo. Quello che regola, tra l’altro, i rapporti tra uomini e donne (sesso compreso) e  le convenzioni tra amici; che è capace di gestire ed annullare anche le vere amicizie (se mai esistevano veramente) di fronte alla morte (non prevista) in termini consapevoli. E anche qui, superbe le interpretazioni: di Rachel Roberts, Jill Bennett  (mancate prima di Lindsay e ricordate nel suo "canto del cigno", Is that All there is? del 1993), di John Moffatt, Cathleen Nesbitt, per non citarne che alcune...

Maria Cristina Nascosi

 

 

 

Lirico monocromatico: il cinema di GUY MADDIN

    Se c’è, ai nostri giorni, un cinema da ammirare, difendere e divulgare, è proprio quello di Guy Maddin, straordinario cineasta canadese fuori da ogni schema e da ogni logica di mercato, a cui il  Bergamo Film Meeting ha dedicato una minipersonale con tutti i suoi lungometraggi.
    Nato a Winnipeg nel 1956, ma cresciuto col cinema degli anni ’20 (è un grande ammiratore di Von Sternberg, e dei film di Tod Browning con Lon Chaney), Maddin costruisce le sue pellicole proprio come se si trattasse di ritrovati di quell’epoca: spesso in bianco e nero, con pochissime parole, per lo più contenute in didascalie. Un lavoro sull’immagine che non si limita alla composizione del quadro, ma arriva alla manipolazione della celluloide stessa, per dare l’impressione di invecchiamento. I risultati sono quelli di uno stile personalissimo: le storie dei suoi film spesso riguardano amori impossibili, personaggi smemorati o menomati (ricorrente la mutilazione delle gambe), e gli angoli sfocati dell’inquadratura ci restituiscono frammenti di un mondo, ben più vasto, in cui esiste ancora un romanticismo e il sogno non perde la sua carica eversiva e sensuale.
   Già dal suo mediometraggio d’esordio,
The Dead Father (1986), in cui un ragazzo continua ad incontrare il padre morto, che si muove e cammina come fosse ancora vivo, emerge una fondamentale tematica maddiniana: il rapporto con le radici, non solo con quelle personali (il padre del regista era deceduto non molto tempo prima), ma anche con quelle dell’arte di cui Maddin si serve per esprimersi. Nelle interviste, egli afferma infatti di sentirsi a suo agio in quello che definisce “l’asilo del cinema”, quel luogo spazio-temporale della settima arte in cui la mancanza del suono e del colore e l’ansia di sperimentazione, portavano i cineasti a soluzioni ardite per donare espressività e struggente lirismo, alle immagini. Dopo The Dead Father, la carriera di Maddin continuerà ad alternare corti (spesso introvabili: a Bergamo ne sono stati proiettati sei) e lungometraggi, dal primo Tales from the Gimli Hospital (1988, girato nei fine settimana nel corso di un anno e mezzo, opera di una ricchezza visiva sconcertante nonostante sia stato prodotto con quattro soldi) per arrivare fino alla splendida semiautobiografia Cowards Bend the Knee e a  The Saddest Music in the World (entrambi del 2003, l’ultimo presentato a Venezia 60), in cui fanno capolino anche attori di nome, come Isabella Rossellini e Maria De Medeiros.  La filmografia di Maddin si segnala per la straordinaria compattezza espressiva e tematica, con una miriade di rimandi interni, spesso inconsci (egli stesso non sa come spiegarne alcuni), e la visione di un progetto di cinema che raramente si perde nel nulla, se non nel caso di Twilight of the Ice Nymphs (1997), in cui scenografie kitsch, colori squillanti e estenuanti dialoghi non convincono, a tutt’oggi, lo stesso autore.
    Difficile non rimanere catturati, ammaliati dal mondo di un cineasta dallo sguardo tanto fresco e intimo, le cui visioni, spesso isteriche e sfrenatamente romantiche, sono da accostare più al Bunuel avanguardista che a
David Lynch, come hanno detto alcuni frettolosi esegeti. Ma al di là di accostamenti ed etichette, c’è chi ha semplicemente usato il termine maddinesque per definire un’opera caratterizzata da una miriade di frammenti di influenze e suggestioni, di tale consistenza che anche quando fa capolino un esplicito autobiografismo, come in Cowards Bend the Knee, esso è guardato attraverso lo specchio deformato di un’immaginazione senza limiti. Sarebbe troppo chiedere di avere un autore simile in Italia, ma potremmo continuare a sperare che qualche sua pellicola (visibile sinora solo nei festival) riesca ad essere distribuita anche nel nostro Paese...

Pietro Liberati