n°3 inserto speciale

appunti sul PIANO-SEQUENZA
di Cristina Menegolli

Piano nazionale per la promozione della didattica del linguaggio cinematografico e audiovisivo nella scuola
Montegrotto (Padova) - novembre 2001

Se la nozione di montaggio è tanto importante per la teoria del cinema è anche perché essa è stata il luogo di dibattiti profondi e duraturi tra due concezioni radicalmente opposte del cinema.

  • una tendenza è quella per cui il montaggio è considerato l’elemento dinamico essenziale del cinema: “montaggio sovrano” (film anni ’20 sovietici, Ejzenstejn, Pudovkin);

  • l’altra tendenza è fondata su una svalutazione del montaggio in quanto tale e sulla subordinazione dei suoi effetti all’istanza narrativa e alla rappresentazione realistica del mondo, considerata come lo scopo essenziale del cinema: cinema della “trasparenza” (Bazin).

BAZIN: il montaggio proibito

Il sistema di Bazin (Cos’è il cinema 1958-62) poggia su un postulato ideologico di base, a sua volta articolato in due tesi complementari:

  • nella realtà, nel mondo reale nessun evento è mai dotato di un senso del tutto determinato a priori (è ciò che Bazin designa con l’idea di una “ambiguità immanente al reale”);

  • il cinema ha come vocazione ontologica quella di riprodurre il reale rispettando quanto più possibile questa caratteristica: il cinema deve produrre delle rappresentazioni dotate della medesima ambiguità.

Questa esigenza si traduce per Bazin nella necessità per il cinema di riprodurre il mondo reale nella sua continuità fisica e fattuale.
L’essenziale delle concezioni baziniane si può riassumere nei seguenti principi:

  • “montaggio proibito” : ogniqualvolta l’evento reale sia fortemente ambiguo  il montaggio sarà proibito.  (esempio: un cacciatore e la sua preda: il cacciatore potrebbe catturare la preda o esserne divorato. Ogni soluzione di questo evento attraverso il gioco del montaggio è puro imbroglio).

  • “trasparenza” : nei casi in cui il montaggio non può essere proibito, l’evento potrà essere rappresentato per mezzo di una successione di unità filmiche discontinue, ma a condizione che questa discontinuità sia quanto più mascherata possibile: è la nozione di trasparenza. Scopo del film è quello di darci l’illusione di assistere a eventi reali che si svolgono di fronte a noi come nella realtà quotidiana.

  • “rifiuto del montaggio fuori raccordo”: Bazin rifiuta di prendere in considerazione l’esistenza di fenomeni di montaggio al di fuori del passaggio da un piano al seguente. Per questo motivo egli valorizza (in particolare in Orson Welles) l’utilizzazione delle ripresa in profondità di campo e in piano-sequenza.

Se infatti il montaggio non può che ridurre l’ambiguità del reale costringendolo ad assumere un senso, la ripresa in piani lunghi, che mostra più realtà in un solo spezzone di film e che pone tutto ciò che mostra su un piano di eguaglianza di fronte allo spettatore, deve logicamente essere più rispettosa del reale oltre che permettere allo spettatore un percorso di lettura più libero e autonomo. (vd. cit. Bazin, Orson Welles in Aumont p. 53).
I due modelli dominanti di montaggio: quello del découpage classico e quello ejzenstejniano, pur antitetici, rivelano però un aspetto comune: entrambi danno vita a un rapporto coercitivo nei confronti dello spettatore, decidono cioè cosa mostrare, come mostrarlo, per quanto tempo e in che ordine. Piano sequenza e profondità di campo danno invece per Bazin, allo spettatore la possibilità di essere lui a decidere.

Ci sono evidentemente delle forzature nella teoria di Bazin:

  • Come osserva Costa, l’uso del piano sequenza non abolisce il montaggio (che si ricostituisce come montaggio interno al piano o montaggio in continuità) né porta ad un grado zero la scrittura filmica, tanto è vero che l’uso del p.s. in autori come Godard Straub, Jancso, Anghelopulos, Antonioni, Bertolucci diventa un procedimento di affermazione di una radicale soggettività dell’autore. D’altra parte il cinema si può avvicinare al reale ma non confondersi con esso. Non si può confondere la realtà con la sua rappresentazione e anche la scelta di ridurre al minimo gli interventi di manipolazione della realtà rappresentata può essere letta come una scelta di discorso.

  • Lo stesso Welles peraltro in F for fake esalta il montaggio come arte della manipolazione.

  • Casetti mette in evidenza come già Hitchcock ne La donna che visse due volte abbia fatto un uso del piano sequenza come possibilità di alterazione del reale, come forma attraverso cui far irrompere nell’immagine configurazioni spazio-temporali “altre”. [inquadratura del bacio, in cui irrompe improvvisamente un altro spazio (dalla stanza d’albergo alla rimessa delle carrozze) e un altro tempo (quello del ricordo del primo bacio tra i due)]

Le indicazioni estetiche di Bazin ebbero però una grande influenza estetico-linguistica su tutto il cinema europeo degli anni ’50 - ’60, ma in particolare su tutti quegli autori che perseguivano un’estetica realistica: Cahiers du Cinema (Godard, Truffaut, Resnais, Rohmer, Chabrol), i registi del Free Cinema inglese (Anderson, Reisz), i propugnatori del Cinema direct (Morin, Rouch) e su molti autori che lo assunsero come strumento di scrittura elettivo: con Antonioni, Fellini, Jancso il piano sequenza si sgancia da ogni pretesa di verosimiglianza per diventare un puro artificio della messa in scena.

 

P.P. PASOLINI

Un posto particolare tra questi autori occupa P.P. Pasolini che si è a lungo occupato del piano sequenza anche a livello teorico in Empirismo eretico (1972). Per Pasolini il cinema è rappresentazione di un mondo che è già rappresentazione, è “una scrittura che si sovrappone ad un’altra scrittura” (realtà: caos privo di senso). Il linguaggio cinematografico ha due strati. Sotto il tessuto narrativo e rappresentativo del film, costituito dalla storia raccontata e dal suo messaggio ideologico, vive uno strato primitivo di elementi, di segni che egli definisce “irrazionalistici, onirici, barbarici”.
In ogni film c’è sempre "un sotto film mitico e infantile, che, per la natura stessa del cinema scorre sotto ogni film commerciale”.
Il cinema in breve condivide le stesse contraddizioni della realtà vissuta, che è significativa o insignificante, a seconda di come noi la guardiamo. Per questo, dice Pasolini, ci sono due film in ogni film:

  • uno narrativo, logico, consequenziale

  • un altro dispersivo, soggettivo, divagante come uno sguardo che si lasci attrarre dalle cose pure e semplici (la soggettiva libera indiretta).

Sono state rilevate molte analogie tra il pensiero di Pasolini e quello di Bazin

  • quello che Bazin chiama “il frammento di realtà anteriore al senso” per Pasolini è “la memoria riproduttiva senza interpretazione”; 

  • quella “ambiguità ontologica del reale”, di cui parla il teorico francese, diventa per Pasolini il “mistero ontologico”, il “sordo caos delle cose”.

Pasolini parte dal film amatoriale di Zapruder, che aveva ripreso accidentalmente la morte di Kennedy (utilizzato anche da Stone in JFK). Questo filmato, dice Pasolini, non è un film, ma solo una lunga interminabile soggettiva, un unico piano sequenza, una sola veduta da un solo punto di vista.

Il p.s., come soggettiva da dietro la m.d.p. si contrappone per Pasolini al montaggio stesso, non come se fossero due stili differenti, ma come due momenti essenziali della scrittura cinematografica, imprescindibili, contrastanti, ma entrambi necessari: 

  • Il piano-sequenza è il momento della visione soggettiva

  • il montaggio è il momento in cui la visione aperta, ma imprecisa, viene a chiudersi in un senso definito.

Il cinema diventa una metafora della conoscenza: p.s. e montaggio sono immagini di due momenti diversi del sapere; 

  • il primo momento rappresenta la soggettività pura e primaria della coscienza che ignora se stessa (una visione sorda e immediata delle cose), 

  • il montaggio è l’intenzionalità della coscienza che si mette in relazione con l’oggetto e quindi anche con se stessa (interpretazione, ricerca di senso).

Un p.s. lungo quanto il film stesso rimarrebbe un vissuto privato, limitato e oscuro, equivoco e incomprensibile. Solo il montaggio, collegando insieme diversi punti di vista, esce dalla soggettività immediata e realizza il film come chiusura di senso, come testo, come discorso.
Fin qui  nulla di nuovo, ma la conseguenza che ne trae Pasolini è radicale: il montaggio rompe la soggettività della visione. Per questa ragione il montaggio appare a Pasolini come morte simbolica. Analogamente alla nostra vita infatti, il p.s. può essere considerato un eterno presente e come tale ininterpretabile, fino a che non è terminato, concluso. Come è necessario morire perché la nostra vita abbia un senso, così è necessario che il materiale filmato muoia nel montaggio per divenire testo.
I film di Pasolini non partono da un senso precostituito, non hanno messaggi che non siano i loro stessi personaggi, sono però dei percorsi alla ricerca di un senso, in cui il camminare stesso del personaggio, un camminare verso la morte, si fa metafora di questa ricerca. 
Come il personaggio non ha altro senso che la sua morte, il film non ha altro senso che la sua fine.

 

GODARD E LA NOUVELLE VAGUE

 Se i film di Pasolini sono riflessioni sul cinema in modo indiretto in quanto riflessioni sulla rappresentazione e sulla vita come rappresentazione, per Godard (Il cinema è cinema 1968) invece il cinema è un sistema rappresentativo che rappresenta innanzitutto se stesso: il cinema è cinema in quanto estrinsecazione palese e sistematica dei suoi stessi procedimenti.
La riflessione di Godard si applica ad una sistematica distruzione del senso nella rappresentazione a ad una sistematica pratica metalinguistica.
Godard cerca di scrivere il cinema come si scrive la poesia, senza cura per la consecutività e la consequenzialità narrativa, ma preoccupandosi solo di lasciare lo spettatore incerto fra le immagini e il senso, segnalando sempre ciò che l’immagine ha di privato, di contingente, di aleatorio, non previsto dal progetto del regista.

Gli autori della Nouvelle Vague hanno infatti trovato proprio in Bazin uno dei loro ispiratori e hanno fatto un uso del p.s. che in alcuni casi si può ritenere vicino ad una logica tradizionale del montaggio (es. epilogo di Muriel di Resnais), in altri casi ne nega il presupposto originario e ne svela la reale essenza di costrutto linguistico cioè di strumento utilizzabile, al pari di altri, al fine di una scrittura filmica personale, che possa permettere all’autore di esprimersi con la massima libertà, cioè non secondo stili e canoni predeterminati.
Lo stesso dicasi per quanto riguarda le tecniche di recitazione e di ripresa basate sull’improvvisazione, le tecniche di montaggio poco rispettose o addirittura noncuranti delle regole classiche (vd. falsi raccordi), le tecniche di missaggio. In particolare in Godard tutti gli aspetti tecnici ed espressivi sono volti ad ottenere una destrutturazione della continuità filmica e una scompaginazione del flusso narrativo.

 

IL CINEMA MODERNO

Un po’ tutto il cinema moderno testimonia comunque, con la radicalità che gli è propria, l’inesausto tentativo di piegare il piano sequenza ai sensi e alle esperienze più diverse, tanto da compromettere e incrinare irreparabilmente la pretesa di esprimere attraverso esso la continuità spazio- temporale della realtà e l’identificazione immaginaria dello spettatore con il p.d.v. della m.d.p.
Il cinema della modernità nega cioè il carattere realistico del piano-sequenza per rivendicare la sua essenziale natura di segno linguistico cioè di figura utilizzabile prima di tutto al fine di una scrittura personale.

  • Nel carosello finale di Otto e mezzo (1963) Fellini utilizza il p.s. non per esprimere la realtà dell’evento che il suo alter ego Guido (Mastroianni) sta per mettere in scena, bensì per significare la capacità/possibilità del regista di trasformare la realtà oggettuale in “discorso” per mezzo di un’abile messa in scena/scrittura, che partendo da uno spazio reale ambiguo non specifico, evochi lo spazio magico di un teatro per far scorrere i personaggi del suo film (quello fatto da Fellini e quello “da fare” di Guido) come nella passerella finale di uno spettacolo di varietà.

  • Il p.s. che chiude il film di Antonioni Professione reporter (1974) svolge una funzione simbolica di chiave di lettura dell’intero film: la macchina da presa abbandonato Nicholson sdraiato sul letto esce lentissimamente dalla stanza dell’albergo e vaga per la piazza del paese, mentre il personaggio va incontro al suo destino di morte. Morte che viene confermata dall’ultima inquadratura, quando la camera rientra nella stanza per mostrare il personaggio morto nel suo letto. La funzione del m.d.m. è quello di “non mostrare” la scena della morte, per togliere alla scena una forte carica emotiva non desiderata dall’autore, una funzione quindi di de-drammatizzazione: non mostrare l’evento drammatico nel suo svolgersi, ma lasciarlo inferire allo spettatore. ”Non si vede <quello che conta>, tutto è sciolto nella fluidità della visione: l’immagine è come abbassata, normalizzata, si coglie il banale o il riflesso del fatto, legati nel tutt’uno del p.s.. Il tempo si sviluppa in tutta la sua intensità drammatica, senza che alcuna punta emerga sulla spinta del racconto.” (Tinazzi)
    La poetica di Antonioni in questo film è quella di partire da un racconto “giallo” con uno schema consolidato, per rompere le linee del racconto, per cogliere l’eco dei fatti, le rifrazioni, i momenti opachi, le zone d’ombra del senso.

In conclusione quindi, contrariamente ai suoi presupposti ontologici, il piano-sequenza può essere utilizzato in forme e modi assolutamente diversi che sempre più lo allontanano dall’originaria vocazione realistica, per farlo diventare uno strumento linguistico discorsivo di personalizzazione stilistica dell’enunciazione filmica.

  • Si pensi a certi p.s. di Argento che, utilizzando particolari tecniche di ripresa (louma steady cam) porta il p.d.v. della camera in luoghi e a distanze chiaramente inaccessibili a un eventuale astante con il cui p.d.v. lo spettatore dovrebbe identificarsi.

E tuttavia c’è un aspetto non secondario del p.s. che il cinema non mette mai in discussione: la sua capacità di incrementare l’esperienza del visibile. Di produrre cioè una visione che - anche nel caso di una rottura palese con il canone del realismo - comunque accresce e arricchisce sensibilmente il tasso di visibilità messo in atto.

IL CINEMA CONTEMPORANEO (postmoderno)

Il cinema contemporaneo invece comincia a corrodere e a mettere in crisi anche questo aspetto. Inizia a praticare il p.s. non come forma vertiginosa ma ricca di visibilità bensì come artificio linguistico che sperimenta sul (e nel) suo stesso parossismo la difficoltà, se non addirittura, l’incapacità di vedere. 

  • Omicidio in diretta (1998) di De Palma si configura come suggestivo ed emblematico esempio di film postmoderno sullo sguardo e sulla pluralità di occasioni che il nuovo scenario tecnologico offre al nostro inesausto bisogno di sperimentare sempre nuove modalità di esercizio del vedere. Nell'incipit la scena si apre all’esterno del Casinò di Atlantic City, dove una speaker televisiva annuncia l’imminente incontro di pugilato. Sembra l’inquadratura frontale di un personaggio che parla davanti a un microfono, ma un repentino allargamento di campo svela che ciò che stavamo vedendo altro non è che un monitor televisivo che trasmette non la “realtà” ma la sua codificazione mediatica. Lo sguardo “serpentino” (Snake eyes - titolo originale - nel gioco d’azzardo allude al punteggio più basso, quindi scacco, débacle, sfortuna...) di De Palma comincia fin dalla prime immagini a rimescolare le carte e a confondere gli spettatori. Subito dopo la m.d.p. si getta in un vorticoso p.s. di dodici minuti che, seguendo un adrenalinico Nicholas Cage, porta lo spettatore su e giù per la gradinata e i corridoi del palazzo dello sport, vicino al ring e infine lo immerge nel panico che dilaga tra la folla dopo il colpo dell’arma da fuoco. In questi dodici minuti non si vedono né il ring, né soprattutto i killer. Il p.s. non mostra né il fulcro diegetico della realtà, né il lavoro del linguaggio che dia un senso al racconto. Mostra piuttosto l’inattingibilità del primo e la sterile impotenza del secondo. Come se De Palma volesse tendere fino al limite estremo le potenzialità tecniche del mezzo per dimostrare tanto il suo non saper vedere quanto, forse, il suo non saper cosa guardare. E’ riduttivo limitarsi, come hanno fatto molti critici, a lodare il “virtuosismo manierista”, la perizia tecnica di De Palma: secondo Canova l’incipit del film vale solo nella misura in cui è la mossa di apertura di un match che va giocato tutto fino in fondo. E che ha come posta in gioco la disorientante instabilità del nostro sguardo. 
    Sembra l’illustrazione paradigmatica e la traduzione visiva delle “intensities” di F. Jameson nella sua analisi del postmoderno: “una macchina per la produzione di alti e bassi scopico - emotivi, che opera in un regime ludico - allucinatorio senza più nessuna diretta relazione né con la percezione del mondo, né con la decodifica del linguaggio che lo dice”.
    Omicidio in diretta ci immerge in un match di pugilato in cui non si vede il match, disegna una prossemica del panico in cui non c’è la folla, configura una scena del delitto in cui si potrebbe anche fare a meno di vedere il morto. Il massimo di visibilità nevrotica prodotta illusoriamente dal piano-sequenza coincide con il minimo dei contenuti “reali” della visione

Tale uso del p.s., ben lontano sia dalla concezione realistica del cinema classico che da quella metalinguistica del cinema moderno rientra in quella che Canova definisce “crisi delle forme filmiche” propria del cinema postmoderno, che egli interpreta come un “malessere segnico” che esprime la difficoltà del cinema contemporaneo di continuare a far funzionare alcune delle più consolidate forme filmiche (p.s., soggettiva, flash back, dissolvenza incrociata) secondo i loro collaudati meccanismi di significazione e di espressione... 

Canova si rifà a Jameson per individuare i caratteri costitutivi del postmoderno:

1.    ibridismo: crollo della distinzione tra cultura d’èlite e cultura di massa

2.    frammentarietà: il soggetto è frantumato e disorientato dalla crisi di tutte le forme identitarie tipiche della modernità (nazione, partito, stato)

3.    superficialità: mancanza di profondità, gusto per la superficie. La profondità è sostituita dall’ intertestualità

4.    euforia: alla mancanza di profondità l’individuo reagisce sviluppando un’emotività simile a quella dello schizofrenico, del drogato

5.    omogeneizzazione dello spazio: l’omogeneizzazione dello spazio subisce dei processi di ibridazione, frammentazione, appiattimento

6.    presentificazione del tempo: cancella la storia. Dimensione sincronica più che diacronica. Ciò comporta la fine dello stile individuale sostituito dalle pratiche della combinazione, del riuso, del gioco, del pastiche.

Tutto ciò si traduce, nel linguaggio filmico, in tendenza all’autoreferenzialità, citazionismo, recupero dei generi, ostentazione del meraviglioso filmico, ipertrofia dell’intreccio, destrutturazione del racconto, ambiguità dei narratori e inaffidabilità delle informazioni prodotte.

 

 

Per concludere, se per cinema classico si intende un cinema di genere, grammaticalizzato, in cui la messa in scena viene occultata e la narrazione sembra farsi da sola e per cinema moderno, un cinema sperimentale, espressivo, d’autore, un cinema come riflessione metalinguistica sulle strutture dell’immagine, del racconto (Resnais-Duras), del rapporto realtà - rappresentazione (neorealismo), in cui la materialità dell’immagine viene esibita, per cinema contemporaneo (dagli anni ’70 in poi) si intende un cinema che torna a grammaticalizzarsi, indirizzato però ad un pubblico più maturo, in cui la materialità dell’immagine viene rivelata per implicare lo spettatore in un nuovo gioco: non più capire ma giudicare, presupponendo la figura di uno spettatore modello al quale si riconoscono competenze superiori a quelle tipicamente infantili nell’interpretazione del film.
La “concettualità” del godimento viene spostata dalla sofferenza del testo (vd. Godard) al piacere del testo: non si tratta più di farsi attraversare dall’opera, ma di attraversarla con una competenza di tipo tecnologico.

L’innovazione tecnica non è più vissuta per le sue implicazioni linguistiche,
ma goduta come plusvalore aggiunto alla diegesi ! 

Se queste sono tutte caratteristiche del cinema contemporaneo si può capire come in esso non si possa più parlare di un’estetica del montaggio dominante. Liberatosi dalle costrizioni grammatical-sintattiche del montaggio analitico e dall’asservimento al realismo del movimento di macchina e del piano sequenza, il cinema contemporaneo usa sempre più la cinepresa come una camera-stylo e il linguaggio come uno strumento duttile e plasmabile ai fini di una scrittura creativa molto personalizzata. Il montaggio analitico può essere alternato al piano sequenza e talvolta può persino ricorrere alle lezioni ejzenstejniane per brevi sequenze. In teoria tutto può essere mischiato insieme purché il risultato sia funzionale a ciò che si intende esprimere.

 

Gli appunti sono tratti dai seguenti testi:

  • AA.VV. Estetica del film, Lindau

  • S.  Bernardi, Introduzione alla retorica del cinema, Le Lettere

  • A. Canova, L’alieno e il pipistrello, Bompiani

  • A. Costa, Saper vedere il cinema, Bompiani