luglio 2013

periodico di cinema, cultura e altro... ©

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Reg.1757 (PD 20/08/01)

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A proposito di draghi, spie e zombie…

    Da una decina di anni le serie televisive americane, ma anche inglesi e, in qualche raro caso italiane (vedi Romanzo criminale) hanno visto una straordinaria fioritura, che, per la qualità dei prodotti, ha attirato l’attenzione, oltre che di sempre più numerosi spettatori, anche di critici, non solo televisivi, che nelle riviste specializzate dedicano ormai un certo spazio a questo tipo di produzione.
Secondo Aldo Grasso i serial televisivi sarebbero i veri eredi della grande narrazione ottocentesca, dei romanzi fiume di Dickens, di Balzac, ma anche di E. Sue o di C. Invernizio, che venivano pubblicati a puntate in fascicoli attesi con ansia dai loro numerosi lettori.
 

        Se si colloca il salto di qualità a cavallo del nuovo millennio con l’uscita di CSI (creato nel 2000 da A. Zuicker), di Alias (creato nel 2001 da J. J. Abrams)  e di 24 (creato nel 2001 da R. Cochran e J. Surnow), nell’arco di questo decennio il genere, che ha sfornato serie di culto, come I Soprano, Lost, Mad Man, ha via via perfezionato e sviluppato i propri codici linguistici, per cui la sua analisi richiede strumenti nuovi o perlomeno rinnovati rispetto al linguaggio cinematografico, con cui ha sicuramente molti elementi in comune, ma da cui si discosta palesemente sia per quanto riguarda la fruizione che per quanto attiene al concetto di autorialità e ai modi della rappresentazione.

Sintetizzando al massimo questi aspetti, basti pensare che nel serial non c’è un unico regista: c’è un ideatore, che spesso firma il pilot e qualche puntata e poi si avvicendano regie diverse. Tra l’altro il creatore della serie viene per lo più dal mondo televisivo, o da quello del cinema, ma può anche appartenere ad ambiti diversi, ad esempio quello letterario, come nel caso di Elmore Leonard, creatore di Justified.
L’ambiguo concetto di “autorialità”, che la teoria cinematografica ha sempre cercato di definire, viene messo in crisi dall’estetica delle serie televisive, dove si può soltanto parlare di istanza creativa, intesa come logica che presiede alla configurazione dei molteplici modelli espressivi. I due poli della narrazione: Autore – Spettatore vanno dunque ridefiniti rispetto al cinema. Per quanto riguarda i modi della rappresentazione, l’aspetto più evidente è quello che concerne la costruzione spazio-temporale. Per citare Enrico Terrone (Il tempo delle serie, in Segnocinema n. 130) “La differenza principale tra una serie e un film è che una serie ha più tempo e meno spazio. Più tempo perché composta da una successione discontinua e potenzialmente illimitata di episodi, meno spazio perché limitata dalla dimensioni ridotte dello schermo televisivo. La narrazione seriale deve dunque compensare il deficit spaziale ricorrendo ad un surplus temporale. Fare spazio con il tempo, cercare nella durata ciò che difetta nell’estensione. Sia le serie sia il film creano un mondo possibile, uno spazio-tempo immaginario. Ma il cinema costruisce il proprio campo narrativo a partire dall’organizzazione dello spazio, mentre la serie ha come materia prima il tempo. La centralità della messa in scena, che caratterizza la scrittura cinematografica, nella narrazione televisiva si piega alla supremazia della messa in serie.

Un’eccezione a questa regola è rappresentata da Il trono di spade, la cui drammaturgia sembra partire proprio dall’organizzazione dello spazio filmico, come evidenziato anche dalla bellissima sigla, uno spazio fortemente connotato, tanto da “bucare” i confini angusti dello schermo televisivo. Serie “regina” dell’ultima stagione, Il trono di spade, è arrivata alla terza fase senza alcun cedimento di stile, ma anzi rafforzando il suo grande impatto visivo. Games of Thrones, questo è il titolo originale, prodotta dalla HBO, è frutto dell’adattamento della saga letteraria A song of Ice and Fire di George R. R. Martin realizzato da un eccellente sceneggiatore hollywoodiano David Benioff (La 25 ora, Troy) e da un romanziere di genere D. B. Weiss, con la consulenza dello scrittore titolare. La struttura narrativa è quella della narrazione corale, le azioni si svolgono in un mondo di fantasia (ma con molti richiami alla tradizione mitologica, storica e delle saghe nordiche).
Semplificando al massimo la trama, peraltro molto complessa, si può parlare del racconto di un’unità imperiale, quella dei Sette Regni, che si disgrega a causa di trame di corte e di pressioni autonomiste e separatiste (l’immagine di apertura di una lupa che muore lasciando soli i suoi lupacchiotti ha in tal senso una forte connotazione simbolica). Mentre si accende la lotta per la successione, alle loro frontiere i Sette Regni sono minacciati dalla possibile invasione dei guerrieri Dothraki (guidati dall’ultima erede dei sovrani spodestati, i Targaryen) e dalle incursioni delle misteriose creature provenienti dai territori oltre la Barriera.
Apparentemente la saga appartiene al genere fantasy e ci introduce in un mondo misterioso, oscuro, terrificante, dove nobili, cavalieri, dame, nani, eunuchi, assieme a lupi, corvi e draghi, lottano per la conquista dell’agognato Trono di Spade, forgiato con tutte la lame che sono state spezzate per conquistarlo. Siamo in una terra scontornata, fuori da ogni contesto geografico, dove “le estati possono durare decenni e gli inverni un’intera vita”. Il conflitto oppone principalmente tre casati: gli Stark (bruni), i Lannister (biondi) e i Targaryen (albini). La gran quantità di
personaggi (circa una trentina) non significa però che essi siano incastonati nel tradizionale schema del bene contro il male, in quanto il loro carattere viene via via definito secondo i criteri della drammaturgia di tradizione anglosassone, nelle componenti di fatal flow (la debolezza, la mancanza), di need (il bisogno morale) e di desire (l’obiettivo), con molteplici e problematiche sfumature.

E questo è sicuramente uno dei pregi della serie assieme a quello che riguarda la costruzione dello spazio. Tutto questo brulicante mondo narrativo infatti non svilupperebbe appieno il proprio potenziale senza una messa in scena di alto livello. La fortissima credibilità della serie si deve in massima parte alla scelta e all’uso di location reali, che hanno il potere di costruire un vero mondo, di fortissimo impatto visivo, basti pensare agli scenari di ghiaccio della Barriera. Il punto di forza dell’apparato scenografico sta inoltre nella connessione tra interni ed esterni, in cui non si coglie alcuna discontinuità, come avviene invece in molto cinema fantasy.
È una serie assolutamente consigliabile a chi ama abbandonarsi al piacere della narrazione pura e, al di là di tutte le possibili letture metaforiche, che si possono trovare,
Il Trono di Spade, per dirla con Aldo Grasso, “va visto, punto e basta”.

Un’altra serie che si è imposta all’interesse del pubblico, con un riconoscimento spesso entusiastico da parte dell’opinione pubblica, è la pluripremiata Homeland, di cui è prevista per l’autunno la terza stagione. Il soggetto originale deriva da una serie israeliana Hatufim , creata da Gideon Raff, al quale la Fox ha affidato l’adattamento americano, affiancandogli due sceneggiatori provenienti da 24: Howard Gordon e Alex Gansa. Vi si racconta il ritorno in patria di un soldato americano, Nicholas Brody, tenuto prigioniero per otto anni dai terroristi islamici e sospettato da un’agente della CIA, Carrie Mathison, di essere diventato a sua volta un terrorista.
La serie condivide con 24 alcuni temi come quello della lotta al terrorismo, della paranoia post 11 Settembre, della dicotomia pubblico – privato, dei limiti della liceità dell’uso della violenza. Tuttavia se ne differenzia per alcuni aspetti fondamentali: innanzitutto la scelta di una protagonista femminile, che rivela la sua forza a partire da alcuni tratti di evidente fragilità e vulnerabilità, che la avvicinano non tanto a Jack Bauer, quanto alla protagonista di Zero Dark Thirty.
Ma la vera novità è rappresentata dal personaggio del soldato Brody, il reduce accolto come un eroe, ma che invece è passato dalla parte dei terroristi. Raramente nel cinema e nella televisione americana è stato affidato il ruolo di protagonista (non di semplice antagonista) ad un personaggio così ambiguo, controverso, non facilmente inquadrabile politicamente.
Sul filo dell’ambiguità si sviluppa anche il rapporto tra i due personaggi, uniti da un duplice legame: da un lato il conflitto politico spionistico che li vede nelle parti di cacciatore e preda, dall’altro l’attrazione erotica, senza che mai una delle due dimensioni prevalga sull’altra. La seduzione in certi momenti sembra soltanto un’arma come un’altra nel gioco delle spie, mentre in altri appare come una forza travolgente, capace di far vacillare il sistema consolidato di valori.

Le performance notevoli dei due attori, Claire Danes e Damian Lewis, l’una più sofferta e intensa, l’altro più contenuto ed enigmatico contribuiscono a rendere credibile il doppio legame tra l’eroina e il traditore. Un montaggio alternato ora parallelo ora convergente segue le avventure dell’agente della CIA e del soldato sullo sfondo della vita politica, diplomatica e militare di Washington D.C. Attorno a loro si muove tutta una serie di personaggi minori, sui quali gli sceneggiatori hanno sviluppato dei plot secondari, i cui esiti sono però sicuramente meno convincenti, in particolare quello che riguarda il rapporto di Brody con la moglie e quello incentrato sulla figura, veramente insopportabile, della figlia Dana.
Il limite della serie è il non riuscire a imporsi, a differenza di Mad Men, de Il trono di spade o di The walking Dead, come un grande racconto corale.

La più “cinematografica” delle serie dell’ultima stagione è The Walking Dead, tratta dall’omonimo fumetto di Robert Kirkman e adattata da Frank Darabont, uno dei più interessanti registi del cinema hollywoodiano (Le ali della libertà, Il miglio verde) con la collaborazione dello stesso Kirkman. Anch’essa, arrivata alla terza stagione, è diventata un fenomeno di culto e si è guadagnata vari premi di categoria.
Il tema è quello dei sopravissuti ad un evento catastrofico, che ha popolato il mondo di zombie, la serie racconta le loro avventure nel tentativo di difendersi non solo dai morti viventi, ma anche dagli altri umani, spesso più pericolosi degli zombie. Il protagonista è un ex poliziotto, che, ritrovata la sua famiglia, si mette in viaggio assieme ad un gruppo di altri sopravissuti, alla ricerca di un luogo dove sia possibile vivere. Il gruppo dei fuggitivi muta nel corso del tempo, arricchendosi di nuovi plot, che contribuiscono a complicare i rapporti interpersonali all’interno del gruppo.
Pur rimanendo fortemente all’interno degli stereotipi del genere (i riferimenti a Romero sono diffusi così come quelli spielberghiani della famigliola sola contro tutti), la serie presenta degli aspetti interessanti e soprattutto sa mantenere un ritmo di suspence costante, grazie ai continui colpi di scena.

Uno dei pregi riguarda l’approfondimento dei personaggi, secondo lo schema della persona normale calata in una situazione eccezionale, le reazioni sono le più svariate, il percorso dei personaggi è talvolta violento e irrisolto, quindi la cifra emotiva è molto varia e non incentrata sulla sola nostalgia di un passato armonioso, basti pensare alla complessità di personaggi come Andrea o Shane. L’impianto visivo è fortemente cinematografico, con scene di massa di complessa costruzione; c’è una grande attenzione alla composizione dell’inquadratura e anche la recitazione è molto cinematografica, ma in uno stile secco, deciso, che fa pensare più che a Spielberg a Carpenterfilm precedente in archivio.
Assolutamente consigliabile agli amanti del genere.

                                                                                                                                                  Cristina Menegolli