luglio 2015

periodico di cinema, cultura e altro... ©

37
Reg.1757 (PD 20/08/01)

 

Cannes

 

   Parlare di Cannes quest’anno è parlare di Joel e Ethan Coen, i mitici fratelli californiani autori di tanti capolavori. Sarà che quattro occhi vedono meglio di due, ma è difficile trovare (a meno che di non andare molto indietro con gli anni) una direzione più intelligente, oculata e attenta solo alla qualità cinematografica delle opere in concorso. E sì che non era facile resistere alla “pressione ambientale” del cinema francese presente con ben cinque opere. Il Palmares che ne esce è, con una sola piccola eccezione di cui diremo in seguito, di una oggettività disarmante. Vincono i migliori, i più innovativi, i più profondi.
Cominciamo dalla meritatissima
Palma d’Oro a
Dheepan. Di Jaques Audiard non serve parlare: allo sbocco di una lunga carriera, cominciata con Il Profeta, continuata con Sulle tue labbra, fino al  successo di Un sapore di ruggine ed ossa (tutti film protagonisti a vario titolo della rassegna di Cannes), centra finalmente il bersaglio grosso con questa nuova opera, dove la sperimentata abilità nel descrivere una certa realtà francese si coniuga con il tema dell’immigrazione clandestina e il suo tragico incontro/scontro con l’Europa.
   Il protagonista è una ex-"tigre tamil", cioè un guerriero separatista indù che ha lottato per anni contro il governo centrale buddista dello Sry Lanka. Allorché dopo stragi e crudeltà senza fine le sorti della guerra volgono al peggio, Deephan si procura un passaporto falso, si unisce ad un'altra sventurata, Yalini (desiderosa di raggiungere la sorella in Inghilterra), e ad una bambina orfana mai vista prima; insieme, fingendo di essere una famiglia, chiedono(ed ottengono!) asilo politico in Francia. Installatisi in una squallida "banlieu" parigina, lui trova lavoro come guardiano di uno stabile fatiscente, lei come badante, la "figlia" Illayal si sforza di andare a scuola. Qui Audiard offre alcuni bei momenti di cinema nella tradizione sua propria e del recente filone realista di lingua francese (cfr i Dardenne o la stessa Loi' du Marche' apparsa qui a Cannes): la falsa famiglia cerca di diventare vera, lui fà di tutto per assimilarsi, proteggere i suoi "cari", educare la figlia rifiutata a scuola ("noi due abbiamo un segreto, devi imparare il francese altrimenti ci mandano via!"). Ma il passato ritorna: la casa dove lei lavora è occupata da una banda di trafficanti di droga e armi in una lotta senza quartiere per il controllo del "territorio". E ritorna anche l'universo chiuso de Il profeta: là era il carcere, qui la banlieu fuorilegge coi suoi ruoli, regole, violenze quotidiane. In fondo non c'e molta differenza con la giungla di Ceylon! Deephan dapprima abbozza, si piega, cerca di salvare il salvabile; ma quando la guerra tra bande esplode veramente i suoi "spiriti guerrieri" tornano a galla e si arriva allo sconvolgente finale...
Audiard insiste nei suoi temi preferiti: il continuo cortocircuito tra amore e violenza, corpi e parole, la famiglia "obbligata", anche la Francia poco conosciuta del bisogno e della segregazione. L'attore protagonista tra l'altro è stato davvero un soldato-bambino, vive in Francia dal '93, è scrittore e uomo di teatro. Solido, compatto, travolgente nelle ultime scene,
Deephan ha senz'altro meritato la Palma d'oro. A molti forse sono sembrate più compiute e originali altre opere di Audiard (ricordiamo anche Tutti i battiti del mio cuore) ma tant'è. Spesso, nella vita come nell'arte o nello sport il massimo riconoscimento arriva non proprio per la prestazione migliore. Sarà stata, nella testa della giuria, un specie dì Palma "alla carriera" ?

   Ancora più meritato, se possibile, il Grand Prix della Giuria a Saul Fia (Il figlio di Saul) di Laszlo Nemes. Ora, se un regista esordiente entra direttamente in competizione a Cannes senza passare per l’anticamera delle sezioni collaterali (Un Certain Regard, La Quinzaine), un motivo deve esserci, o perlomeno i selezionatori devono averlo visto. Il tema è arcitrattato: la Shoa, i campi di concentramento nazisti (e forse dopo tanti film non se ne sentiva il bisogno). Va però riconosciuto che l’approccio, il taglio (anche in senso tecnico-fotografico come vedremo) che gli dà il regista è assolutamente originale.
Il protagonista Saul è un Sonderkommando, cioè uno di quegli ebrei che venivano usati dai nazisti in tutte le fasi inerenti al funzionamento dei campi. Erano loro che accompagnavano i nuovi arrivati dai treni alle soglie della camera a gas (le docce!), li aiutavano a spogliarsi e a deporre le loro cose, li convincevano ad entrare. Appena le porte si chiudevano alle spalle dell’ultimo sventurato, raccoglievano il tutto e, ad operazione terminata, trasportavano i cadaveri destinati alle autopsie, estrazione dei denti d’oro... Il tutto solo per avere una dilazione della pena: trascorsi pochi mesi anche loro sarebbero “usciti per il camino”.
Accade però che Saul riconosce (o crede di riconoscere) nel cadavere di un adolescente il figlio abbandonato bambino al paese. Da quel momento avrà un solo scopo: sottrarre questo corpo innocente all’obbrobrio della fossa comune e dargli una degna sepoltura secondo le regole della religione ebraica. Dovrà trovare un rabbino disposto alla bisogna. Per raggiungere il suo obiettivo nasconde il cadavere, corrompe altri Kapò, mette in pericolo la riuscita di un piano di fuga già in atto tra i suoi compagni di sventura.
A parte una certa mancanza di verosimiglianza (risulta abbastanza strano che fossero possibili all’interno di un universo come quello di Auschwitz certe azioni), il tutto va inteso probabilmente anche come una grande metafora. L’ossessione di Saul va vista come un cammino morale per la riconquista della propria dignità di ebreo e di uomo. Il funerale del figlio sarà la prova che anche nell’abisso dei campi è possibile sacrificarsi per un ideale e riscattare la colpa sia di aver abbandonato il figlio, che di essersi trasformato in complice degli aguzzini. Dio è assente, ma io con la mia azione lo faccio esistere. Ma dove il film raggiunge livelli di eccellenza è nel "girato": per i tre quarti della sua durata la camera è fissa sul volto di Saul (uno straordinario Geza Rohrig, poeta e solo occasionalmente attore!). L’inquadratura non si allarga mai, noi vediamo solo quello che vede Saul; sembra una limitazione, ma invece è un approfondimento. L’azione intorno è sfuocata (out of focus), l’insopportabile violenza e la nudità dei cadaveri solo suggerita. Il film è girato in 35 millimetri, in formato quadrangolare, lente “sporca” di un infernale giallo-rosso. Il direttore della fotografia Matyas Erdely riesce a darci un senso di claustrofobia che è ad un tempo quello del campo e dell’ossessione del protagonista. Saul continua a fare il suo lavoro, ma come la camera è fissa, anche lui è fisso nella sua idea (“la follia di Saul” potrebbe essere un titolo alternativo). Lo spettatore è portato ad un livello di tensione incredibile. Straordinario anche l’uso dell’audio multistrato di Laszlo Melis: un sottofondo sinfonico quasi insopportabile di grida, lamenti, ordini, pianti in tedesco, yiddish, ungherese...
Trovato il rabbino, recitato il Kaddish, Saul si unisce ai suoi compagni nella fuga. Il significato della scena finale, peraltro l’unica girata in esterni, è lasciato alla nostra interpretazione. Davanti ai fuggiaschi rifugiatisi in una capanna per sfuggire alle SS e ai cani che si sentono in lontananza, appare un bambino d’aspetto angelicale: per un momento Saul, che ne incontra lo sguardo, sembra pacificato. Il suo dramma è arrivato forse al termine?
[Candidato ideale a Miglior Film Straniero 2015 e non certo nel ruolo di comparsa]

   Dalla metafora profonda e coinvolgente di Saul, si passa al racconto metaforico di The Lobster, a nostro parere quasi incomprensibile e ingiustificato, certo bizzarro. Il regista Yorgos Lanthimos è considerato un po’ il fondatore del nuovo cinema surrealista greco, suoi sono i precedenti (e passati a Cannes) Dogtooth, su una famiglia tenuta reclusa dal padre per sottrarla al mondo circostante, e Alpis, che racconta la bizzarra vicenda degli “impersonators”, individui che a pagamento si sostituiscono a persone defunte per lenire il dolore dei familiari.
Ottenuto un budget senz’altro molto più consistente, girando in inglese per accedere al mercato internazionale e giovandosi dell’interpretazione di attori di richiamo quali Colin Farrel, Rachel Weisz, Lea Seydoux, John C. Reilly, il regista greco si cimenta in una ambiziosa distopia con risultati in parte dubbi.
In una splendida casa-albergo da qualche parte nel nord dell’Europa in un futuro abbastanza prossimo, va a rinchiudersi una bizzarra, eterogenea comunità di personaggi accomunati solo dalla condizione di single. Lì, sotto la sinistra direzione di una inquietante coppia, avranno 45 giorni di tempo per redimersi dal loro “peccato originale”, trovando tra gli altri ospiti un’anima gemella (non importa se uomo o donna). Scaduto tale termine verranno trasformati in un animale di loro scelta. La maggior parte sceglie banalmente un cane o un gatto, il protagonista David (un irriconoscibile Colin Farrel) sceglie l’aragosta del titolo: “vive cento anni e non smette mai di fare l’amore”. “Sì, ma viene infilata viva nell’acqua bollente” commenterà qualcuno.
La vita nell’hotel segue un programma fitto di incontri, cene, piccoli spettacoli teatrali, il tutto allo scopo della reciproca conoscenza e dell’incontro con un possibile partner. Unica evasione la giornata settimanale di caccia: sì, perché nei fitti boschi che circondano la villa vive una seconda comunità formata da tutti quelli che non riuscendo ad adeguarsi alle regole della casa o avendo perso la speranza di trovare un compagno, hanno deciso di fuggire . L’uccisione di uno di questi ribelli fa guadagnare al cacciatore un bonus di quattro o cinque giorni per raggiungere il suo obiettivo. Dopo una serie di sfortunati tentativi di relazionamento con altri membri della comunità (c’è anche l’uccisione da parte di una possibile partner respinta del cane/fratello), David fugge dall’hotel e si unisce al gruppo dei ribelli guidati da una spietata Lea Seydoux. Il problema è che qui vige la regola uguale e contraria: è proibito innamorarsi. Cosa che invece puntualmente accadrà con la splendida Rachel Weisz, dando il via ad un incredibile finale a base di mutilazioni ed auto-mutilazioni.
EÈquesta forse la parte meno riuscita del film, che invece nella prima, quella dell’hotel magnificamente ricostruito a dare l’idea di un mondo chiuso, intrinsecamente fascista e dei disperati tentativi di questi drops-out per riuscire ad essere normali, era molto più incisivo, ben girato e recitato e, a volte, quasi divertente. Se per distopia intendiamo immaginare una società futura dove il potere dell’autorità politica, religiosa o tecnologica riduce gli uomini a degli schiavi controllandone ogni attività (e qui gli esempi sono molti e riuscitissimi, da 1984 a La Fattoria degli animali di Orwell), nel film di Lanthimos è proprio la premessa forse ad essere sbagliata. Era forse vero al tempo del fascismo, di tutti i fascismi, che lo scapolo era punito, ma oggi? Andiamo verso un mondo dove la singletudine sarà la condizione esistenziale di normalità per un buon terzo degli esseri umani, tra l’altro con grossa soddisfazione per gli interessi del mercato e per loro stessi. Di conseguenza il film non ci ha suscitato alcuna empatia (vi ricordate la prima volta che abbiamo letto La Metamorfosi di Kafka, di come tutti abbiamo detto “potrei essere io”?). Qui non abbiamo trovato alcuna immedesimazione coi personaggi, distanti e improbabili. Altrettanto assurdo il mondo della foresta (dove è evidente anche l’ispirazione in chiave catastrofica-degoutant a certe saghe distopiche per adolescenti del tipo di Hunger Games): forse il regista vuole suggerire che in entrambi i casi la società ci vuole imporre un suo modello precostituito? La fantascienza o le “fantasticherie” alla Borges ci fanno trepidare o temere che la “cosa” si realizzi, qui invece siamo rimasti insensibili come di fronte ad un abile gioco. Più verosimile o del tutto fantastico? O solo "morboso" come la testa dell’Autore. Un Premio della Giuria forse sprecato!
promo

   Nessun dubbio: di tutti i film passati in concorso a Cannes Carol è quello più accattivante, levigato, visivamente gradevole, "hollywoodiano" nel senso buono del termine. Un prodotto quasi perfetto e senz'altro destinato ad un percorso ricco di soddisfazioni nella stagione degli Oscar, Golden Globe eccetera. Sembrava dovesse mietere allori anche qui, ma la giuria dei fratelli Cohen ha deciso altrimenti limitandosi ad attribuire quello per la migliore attrice alla quasi esordiente Rooney Mara, tra l'altro in coabitazione con l'attrice francese Emmanuel  Bercot.
Ma andiamo per ordine... Inverno1952. Carol (Cate Blanchett) e' una bella signora della migliore borghesia newyorchese: casa (mansion) nel Connecticut,  auto di lusso, pellicce, giornate da spendere a far shopping a Manhattan. Ed è qui, in un grande magazzino "high profile", dove cerca un regalo per la figli,a che incontra Therese, commessa appena assunta: cappellino da Babbo Natale, volto da cerbiatta (impossibile non pensare alla prima Audrey Hepburn!). La scintilla scocca immediata, complice un paio di guanti dimenticati ad arte (?). Decidono di rivedersi: lei, Carol, prossima al divorzio dal marito banchiere e non nuova ad esperienze del genere, vede nella "petit" l'inizio di una nuova vita; per Therese  è la possibilità di uscire da un "inverno" famigliare, sociale, affettivo (c'è anche un insignificante fidanzato...). È dapprima una curiosità inconfessata, solo una sensazione, poi una forma di amore. Dall'altra parte c'è corteggiamento, aperto ma non sfacciato, fatto di sguardi, silenzi, altri inviti, qualche regalo.
Partiranno insieme, con una scusa, per il più inconsueto dei "road movie". Accade quello che deve accadere: una scena soft, estremamente castigata, solo suggerita, niente anche vedere - per intenderci - con le torride atmosfere di La vita di Adele. Ma la realtà è in agguato: il marito ha assoldato un investigatore privato che registra tutto, la trascina in tribunale, minaccia di toglierle la bambina. Lei finge di pentirsi, giura di non rivederla più... Il finale è aperto, un po' incongruo: si ameranno da lontano, in silenzio come sembra suggerire la scena conclusiva?
Ispirandosi molto liberamente al racconto di Patricia Highsmith The Price of Salt, il regista Todd Haines ci dà un affresco estremamente veritiero della impossibilità di essere diversi (sessualmente e non solo) nell'America repressa e bigotta degli anni '50; l'epoca della caccia alle streghe, del maccartismo, ben lontana dalla liberazione dei costumi dei decenni a venire. L'aveva già fatto alcuni anni fa con
Lontano dal paradiso, di fatto il pendant (al maschile e molto più inquietante e riuscito, a dire il vero) del film odierno.
Perfetta la fotografia di Ed Lacran (lo stesso della miniserie
Mildred Pierce firmata da Haines quattro anni fa), impeccabile la prova di Cate Blanchett, anche se a volte un po' troppo troppo algida; fondamentale l'apporto di Rooney Mara, sua deliziosa spalla. E qui viene l'unico appunto fatto da molti ai Cohen: perché non dare l'ex-equo alle due attrici americane, di fatto un corpo e un'anima in delizioso equilibrio?
Ma tant'è. E poi la Blanchett avrà modo di rifarsi con gli Oscar...

   All'estremo opposto del glamour estetizzante di Carol, la Francia ha presentato a Cannes un altro film del filone sociale-anticapitalista che la contraddistingue negli ultimi anni : La loi du marche (La legge del mercato) di Stephan Brizèfilm successivo in archivio.
Thierry, il protagonista (uno straordinario Vincent Lindon), è il tipico rappresentante di quella fascia di cittadini europei più duramente colpiti dalla crisi: 51 anni (troppo giovane per andare in pensione, troppo vecchio per interessare al mercato) ha perso il lavoro a causa della solita "relocation" extra-europea, e la sua vita si trasforma in un calvario:
corsi di formazione miseramente pagati ma senza speranza di assunzione, infinite interviste di lavoro (di persona o via Skype), addirittura surreali lezioni sul "linguaggio del corpo". Aridi, finto-interessati esaminatori lasciano cadere domande tipo "accetterebbe di fare lo stesso lavoro per un salario minore" - "è disponibile ad orari flessibili?"
Nel frattempo Thierry si  sforza di mantenere  un minimo di normalità in famiglia: le lezioni di ballo, la ricontrattazione del mutuo sulla casa,
la penosa vendita della roulotte per tirare avanti. E anche quando finalmente un lavoro lo trova, come sorvegliante in un supermercato, l'incubo si capovolge  ma non scompare; schierato dall'altra parte della barricata, al riparo di telecamere nascoste, gli tocca scoprire, sanzionare e punire le piccole miserie che la crisi ha moltiplicato: l'anziano che si mette in tasca un pezzo di carne da pochi euro, la cassiera che fa la furba coi buoni sconto o i punti del concorso... Alla fine non ce la fa più: semplicemente si toglie il camice e se ne va. A tutto c'e un limite per chi ancora ha una coscienza e una dignità.
Vincent Lindon è l'unico attore professionista (meritatissimo il premio per la miglior interpretazione), tutti gli altri sono veri lavoratori che interpretano se stessi. Ne segue che il film è per un verso un "documento", duro, didascalico, una scansione di scene concluse che si accumulano, in maniera a volte angosciante, a dimostrare un fatto che (vedi la Grecia) è ormai sotto gli occhi di tutti: o l'Europa fa qualcosa o questo tipo di capitalismo disumano finirà per di struggerla. Bisogna smettere di pensare che il denaro sia la misura di tutto.  The Measure of man sarà il titolo per il mercato inglese!

Giovanni Martini - maggio 2015