Cut
Amir Naderi - Giappone 2011 - 2h 12'

Venezia 68 - Orizzonti

    

    Quella raccontata dal cinema di Amir Naderi è un’ossessione. Anche senza aver visto tutta la sua filmografia (sedici lungometraggi, una buona parte girata in Iran, tre a formare una trilogia newyokese) si può far riferimento al terzo capitolo della trilogia (Marathon - Enigma a Manhattan) per disvelare un immaginario (in bianco e nero) cadenzato dallo sferragliare dell'underground, da quei quasi cento cruciverba che devono essere risolti entro una giornata. O a quel Vegas: Based on a true story, presentato tre anni fa in concorso qui a Venezia, con un cromatismo quasi sciatto, “impolverato” quanto il suo protagonista che riduce il giardino di casa ad un ammasso desertico nella paranoica ricerca di un improbabile tesoro che possa ridare un equilibrio, almeno economico, alla famiglia.
Ora con
Cut, relegato (!?) nella sezione Orizzonti, nichilismo e cinefilia si compenetrano attraverso la figura di Shuji, giovane cineasta giapponese “duro e puro”, che vaga per la città ammonendo con un megafono che il cinema sta morendo, che scomparirà se non saprà riscoprire il binomio aureo arte- intrattenimento. Shuji dà il suo contributo divulgativo organizzando sul terrazzo di casa (un’oasi per pochi eletti incastonata nello skyline della metropoli) proiezioni di capolavori immortali: Keaton, Truffaut, Cassavetes, Oshima …
Il suo agire non è solo pubblico. Lo vediamo ritualmente rendere omaggio alle tombe di cineasti quali Ozu e Kurosawa (e in questi frangenti la fotografia vira “ossequiosamente” al bianco e nero), ma il suo iter autoriale cozza ben presto contro uno scoglio di inaspettata concretezza e brutalità. Il fratello Shingo, che si era prodigato per procurargli il denaro per realizzare i suoi film, viene ucciso in un giro di affari sporchi interni al mondo degli yakuza e l’insolvenza del suo debito ricade su Shuji.
La scadenza è troppo breve, l’importo per lui troppo alto… Ma le circostanze lo portano ad una soluzione di devastante disumanità. Shuji, proprio nei gabinetti dove il fratello ha perso la vita (il luogo diventa simbolo di espiazione), si offre, a pagamento come punchball umano, agli sfoghi violenti degli avventori del bar-palestra degli yakuza. Shuji non è però un sacco inerte, il suo corpo giovane e robusto, pur coprendosi via via di lividi sanguinolenti, si erge provocatorio ed altero, sfida i clienti, battendo i piedi e gridando, in una sorta di taumaturgia cinefila, i film e i nomi dei registi che ha nel cuore.

La sua prova è estenuante ed altrettanto lo è quella dello spettatore. I pugni che colpiscono lo stomaco e il volto di Shuji riempiono lo schermo di un dolore fisico che diventa quasi tangibile, che si traduce in una sofferenza indotta che cresce in intensità nella consapevolezza del perpetuarsi della sfida. La scommessa estrema, per accumulare in tempo la cifra necessaria, è infatti quella di arrivare ad incassare 100 colpi consecutivi che, nell’economia del masochismo metalinguistico di Shuji, si traducono nell’enunciazione dei 100 film fondamentali della “sua” storia del cinema. Il piacere di sentirli, di leggerne i titoli a schermo nero, di rinverdirne il ricordo con qualche scena memorabile (Sentieri selvaggi ovviamente…) va di pari passo con la sofferta attesa per una meta che sembra estenuantemente così lontana. Quando si arriva all’ultima decina, quando alfine si materializza la sequenza finale di Quarto potere, la sensazione liberatoria che
Cut trasmette allo spettatore raggiunge il suo apice.

Shuji può ora pagare il suo debito e sostenere lo sguardo degli yakuza per farsene concedere un altro. La sua ispirazione di cineasta ha bisogno di finanziamenti, il cinema (e questo festival) hanno proprio bisogno di Amir Naderi.

ezio leoni - La Difesa del Popolo - 18 settembre 2011