Diavolo
d'uno
Spike Lee!
Abituato a fare film nel più indipendente dei modi, ne
accetta uno su commissione (lo doveva dirigere Ron Howard); e non solo ne
fa uno tra i migliori thriller delle ultime stagioni, ma ci stampa anche
chiara la sua firma d'autore. Il soggetto è quello classico della "bank
robbery". Una banda di rapinatori irrompe in un prestigioso istituto di
credito di
Wall Street, sequestrando un piccolo esercito di ostaggi. Tenta
di mediare con i banditi il poliziotto Denzel Washington, in contemporanea
con una volitiva avvocatessa, Jodie Foster, ingaggiata dal padrone della
banca e che gli mette i bastoni tra le ruote. I sequestratori si ritrovano
sequestrati a loro volta. Tutta la faccenda, già di per sé incasinata, è
ancor più complicata delle apparenze (i rapinatori non cercano soldi, ma
documenti compromettenti), dando luogo a una serie di colpi di scena e
ribaltamenti, più una sorpresa alla David Mamet, che mettono film e
spettatore al sicuro dai tempi morti.
Dalla tradizione hollywoodiana al recente
A history of violence
di Cronenberg, la storia del cinema conta molti casi di film "di studio"
che diventano opere originali e personali. Lo è, senza dubbio,
Inside Man,
con cui Lee ritrova la forma del grande
La 25a ora dopo la pausa minore
di
Lei mi odia.
In primo luogo, c'è lo stile di regia: il senso dell'inquadratura
(ciascuna è una lezione di cinema), l'alternanza del montaggio nervoso
e serrato (nulla a che vedere, però, con l'estetica videoclippara)
con piani più lunghi e distesi; l'uso competente della musica. Poi,
Spike gioca sapientemente con la tradizione del
noir;
non per fare cinefilia (come non è semplice cinefilia la citazione
esplicita di Quel pomeriggio di un giorno da cani, cult del cineasta),
bensì per situare il proprio film a una sorta di crocevia tra le configurazioni
che il genere ha assunto attraverso i decenni (il dandysmo di Washington
somiglia molto a quello di Humphrey Bogart). E fin qui, si parla di
padronanza della materia e di eleganza della messa in scena, che sono
i fondamenti del cinema.
In sovrappiù, Lee riesce a mettere dentro un film di genere fatto secondo
le regole i temi d'attualità che - giustamente - lo ossessionano: i timori
sulla metamorfosi dell'America seguita all'11
settembre;
le relazioni interrazziali, sempre in primo piano nella sua filmografia;
le collusioni tra onesto e disonesto, giusto e ingiusto. Ci aggiunge una
dose di humour (il bambino di colore fan di 50 Cent), tocco finale di un
film che unisce piaceri del "classicismo" e osservazione della realtà
come, oggi, ben pochi altri sanno fare. |