Una scommessa non facile quella degli organizzatori di questa
ventiquattresima edizione del festival del cinema orientale di
Udine. Decisamente vinta però, considerati i numeri più che
positivi dei partecipanti (quarantamila spettatori) e la
qualità dei film proposti.
“Alla pandemia s’è aggiunta la guerra, far volare centinaia
di ospiti dall’altra parte del globo a qui non è stato il più
semplice dei problemi”, spiega Sabrina Baracetti, inoltre
“abbiamo avuto più difficoltà a scegliere i film, ci siamo
fidati dell’istinto: vederli sul computer non ha lo stesso
effetto del grande schermo”. Dopo un’edizione
completamente digitale (2020) e un’edizione condivisa tra il
pubblico dello streaming e quello del Visionario (2021), il
FEFF è tornato finalmente nella sua forma originaria con le
proiezioni al Teatro Giovanni da Udine e al Visionario, che ha
ospitato le sezioni speciali (Visions of Manila, The
Odd Couples, Best of the Best), avvalendosi di un
sistema di prenotazioni che ha evitato le file e gli
assembramenti degli anni precedenti.
72 film (13 anteprime mondiali, 18 internazionali, 11 europee
e 13 italiane) di cui 42 in concorso, 10 le cinematografie
asiatiche rappresentate, 15 i paesi coinvolti (tra cui, novità
assoluta, anche il nostro paese con
The Italian Recipe, una
coproduzione Italia-Cina).
Nonostante la presenza di una settantina di ospiti orientali,
rispetto alle passate edizioni sono mancate le vere e proprie
star e l'attesa presenza di Takeshi Kitano ha deluso
all'ultimo momento le aspettative del pubblico dei suoi fan,
che si sono dovuti accontentare della consegna via streaming
del Gelso d'oro alla carriera.
D'altra parte i disagi con cui i coraggiosi organizzatori del
FEFF e i loro ospiti hanno dovuto fare i conti sono
tantissimi, basti pensare che i Cinesi che tornano in patria
devono affrontare una quarantena di tre settimane, nelle
Filippine le sale sono chiuse da due anni e anche in Corea si
aspettano tempi migliori per lanciare i blockbuster, tanto che
il film
Confession è arrivato al
Far East senza mai aver fatto
un'uscita in patria. Ciononostante si può affermare che la
macchina organizzativa ha funzionato perfettamente e la
qualità dei film proposti ha trovato una conferma
nell'entusiasmo del pubblico.
Proprio il pubblico – secondo
una tradizione che risale al primissimo
FEFF
– ha decretato la vittoria della Corea del Sud, premiando con
il
Gelso d’Oro
MIRACLE: LETTERS TO THE PRESIDENT di Lee Jang-hoon, un inno al
potere dei sogni, che racconta la storia di uno studente
prodigio di matematica, che lotta per avere ad ogni costo una
stazione, nel paesino della campagna coreana in cui vive, che
è attraversato dai binari, ma non ha una ferrovia.
Al secondo posto del podio si è invece piazzata la Cina con il
film rivelazione del festival di Berlino
RETURN TO DUST
di Li
Ruijun, che, attraverso i silenzi e i ritmi contadini della
Cina rurale, narra una storia d'amore nata da un matrimonio
combinato.
Al terzo posto l’esilarante TOO COOL TO KILL di Xing Wenxiong,
storia di un attore da strapazzo, che viene ingaggiato come
protagonista in un gangster movie.
Anche gli accreditati Black Dragon hanno incoronato
RETURN TO DUST, mentre gli spettatori di
Mymovies hanno scelto il
sudcoreano KINGMAKER di Byun Sung-hyun, sulle dinamiche
elettorali della Corea degli anni 70.
I giurati della sezione Opere Prime (i Manetti Bros. e Vanja
Kaludjercic, direttrice del Festival di Rotterdam) hanno poi
confermato l’entusiasmo generale per
TOO COOL TO KILL,
assegnandogli il
Gelso Bianco, mentre il
Gelso per la Miglior
Sceneggiatura – novità di quest’anno – è andato alla commedia
romantica LOVE NONETHELESS di Jojo Hideo,
un gioco di scambi e di equivoci tra alcuni adolescenti di
Tokio.
Le premiazioni hanno confermato l'orientamento della giuria
popolare, che si era manifestato anche nelle passate edizioni,
oscillante tra la predilezione per i temi più sentimentali e
quella per il filone più demenziale. Peccato che il bel film
del tailandese Baz Poonpiriya ONE FOR THE ROAD, un road movie,
che affronta il tema della morte e dell'amicizia, attraverso
una sceneggiatura che nulla concede al patetico o al banale,
non abbia avuto un riconoscimento.
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Inutile dire che uno dei pezzi
forti in cartellone era la versione restaurata dello splendido
film di Takashi Miike
AUDITION, che, a distanza di 23 anni,
conserva intatta la sua carica disturbante frutto di una
perfetta corrispondenza tra la storia narrata e il modo in cui
Takashi la racconta, sottolineando il passaggio da una
situazione apparentemente banale a una dimensione da incubo
attraverso raccordi sbagliati, cambi improvvisi di
prospettive, ribaltamenti di campo.
Uno spazio particolare ha avuto quest'anno il cinema
filippino, che il
FEFF ha avuto il merito di far conoscere in
Italia nel corso delle sue varie edizioni. Oltre ai film in
concorso,
Leonor will never die
di Martika Escobar, una favola
metalinguistica che ruota attorno alla figura di una anziana
regista di action movie, un po' pasticciato e pretenzioso,
Reroute di Lawrence Fajardo, una rivisitazione horror del
genere “non aprite quella porta”, che si avvale però del
fascino dell'ambientazione nella foresta tropicale e
Rabid
horror
in quattro episodi di Erik Matti, presente anche con
On
the Job: the missing 8 visto a Venezia (MCMagazine 69),
particolarmente interessante si è rivelata la sezione speciale
intitolata Visions of Manila, un percorso monografico, che,
attraverso cinque film, capolavori recenti e cult del passato,
si proponeva di raccontare una delle megalopoli orientali più
complesse e contraddittorie del mondo. Cinque film, cinque
punti di vista diversi per rappresentare situazioni e realtà
emblematiche di uno degli agglomerati urbani più mostruosi e
nello stesso tempo affascinanti del mondo orientale. Dai
quartieri a luci rosse di
Manila by Night
(1980) di Ishmael
Bernal, alla Chinatown di
Manila in the Clows of Light (1975)
di Lino Brocka, alla violenta “guerra alla droga” di Duterte in
Neomanila
(2017) di Mikail Red, alla triste condizione
degli immigrati dalle campagne in
Metro Manila
(2013) di Sean
Ellis. Tra questi anche lo sconvolgente
SLINGSHOT
di Brillante Mendoza (2007).
Il film, che è ambientato nel quartiere Quiapo, uno dei più
sovrappopolati e marginali di Manila, durante la Settimana
Santa, con la famosa “traslacion” del Nazareno Nero, segue i
destini di quattro ragazzi impegnati a sopravvivere nel
difficile periodo elettorale, quando la corruzione è ai
massimi livelli, sia tra i politici che tra i criminali comuni
di bassa lega. La macchina da presa di Mendoza si incolla
letteralmente ai corpi seminudi, alle schiene sudate, ai piedi
che calzano gli infradito di questi giovani, seguendone gli
spostamenti, i gesti, le espressioni, i rapporti anche
sessuali, senza mai lasciarli, trascinando così lo spettatore
per ottantasei minuti all'interno di questo girone infernale,
dove le figure dei protagonisti diventano un tutt'uno con la
marea indistinta di corpi che percorre le strade del
quartiere, ma riuscendo nel contempo a catturarne gli stati
d'animo, senza disumanizzarli. Un ennesimo esempio di grande
cinema di questo autore.
Grandi aspettative attendono gli appassionati in vista della
prossima edizione (25°), che costituisce anche un importante
anniversario.
Cristina Menegolli |